Bancarotta e altri reati fallimentari

Cass. pen., Sez. V, 05/10/2022, n. 47762

In tema di reati fallimentari, il delitto di bancarotta documentale semplice deve ritenersi assorbito dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale, qualora i fatti addebitati abbiano ad oggetto le medesime scritture contabili, in quanto, a fronte dell’omogeneità della struttura e dell’interesse sotteso alle predette figure di reato, prevale la fattispecie più grave connotata dall’elemento specializzante del dolo specifico.

Cass. pen., Sez. V, 05/10/2022, n. 44387

Non può, nei confronti dell’amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto. Infatti, l’amministratore in carica risponde penalmente dei reati commessi dall’amministratore di fatto, dal punto di vista oggettivo ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire, e, dal punto di vista soggettivo, solo se sia raggiunta la prova che egli aveva la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distraeva, occultava, dissimulava, distruggeva o dissipava i beni sociali, esponeva o riconosceva passività inesistenti.

Cassazione penale sez. V, 08/10/2020, n.33114

In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma 1, lett. b), l. fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto corretta l’individuazione della prova del dolo specifico sufficiente ad integrare la condotta di occultamento nell’approvazione, da parte del liquidatore della società, di due bilanci successivi senza avere la disponibilità delle scritture contabili).

Cassazione penale sez. V, 05/03/2019, n.26379

In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma 1, n. 2), l. fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture che, invece, integra un’ipotesi di reato a dolo generico e presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che, a fronte della contestazione di un’ipotesi di sottrazione o distruzione della contabilità, aveva affermato la responsabilità dell’imputato per la diversa ipotesi di concorso nell’omessa regolare tenuta delle scritture contabili, dando peraltro atto nella motivazione dell’assenza della prova di una «sia pur parziale tenuta delle scritture contabili») .

Cassazione penale sez. V, 08/02/2021, n.18677

Concorre in qualità di “extraneus” nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, il legale o il consulente contabile che, consapevole dei propositi distrattivi dell’imprenditore o dell’amministratore di una società in dissesto, fornisca a questi consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o li assista nella conclusione dei relativi negozi, ovvero svolga un’attività diretta a garantire l’impunità o a rafforzare, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui progetto delittuoso. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell’imputato che, quale consulente di una società, era stato l’ideatore di complesse operazioni di fusione per incorporazione finalizzate alla dismissione del patrimonio della fallita, predisponendo il contenuto degli atti negoziali e gestendo la definizione dei relativi rapporti economici).

Cassazione penale sez. V, 05/02/2021, n.11420

In tema di reati fallimentari, l’articolo 216, comma 1, numero 2, della legge Fallimentare configura due diverse, alternative ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale. La prima consiste nella sottrazione o distruzione (cui è parificata l’omessa tenuta) dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori. La seconda è quella di tenuta della contabilità in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, che, diversamente dalla prima ipotesi, presuppone un accertamento condotto sui libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli organi fallimentari e richiede il dolo generico. Trattandosi di ipotesi alternative, qualora venga contestata la fisica sottrazione delle scritture contabili alla disponibilità degli organi fallimentari (anche eventualmente nella forma della loro omessa tenuta), non può essere addebitata all’agente anche la fraudolenta tenuta delle medesime, giacché tale ultima ipotesi presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli stessi organi fallimentari.

Cassazione penale sez. V, 25/01/2021, n.13059

In tema di bancarotta documentale, qualora sia assente o insufficiente l’accertamento in ordine allo scopo eventualmente propostosi dall’agente ed in ordine alla oggettiva finalizzazione di tale carenza, la mera mancanza dei libri e delle scritture contabili deve essere ricondotta alla ipotesi criminosa della bancarotta semplice.

Cassazione penale sez. V, 19/01/2021, n.8902

È ammissibile la contestazione alternativa dei delitti di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione, distruzione o occultamento di scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, e di fraudolenta tenuta delle stesse, che integra una ipotesi di reato a dolo generico, non determinando tale modalità alcun vizio di indeterminatezza dell’imputazione.

Cassazione penale sez. V, 30/11/2020, n.36870

In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’imprenditore non è esente da responsabilità per il fatto che la contabilità sia stata affidata a soggetti forniti di specifiche cognizioni tecniche, in quanto, non essendo egli esonerato dall’obbligo di vigilare e controllare le attività svolte dai delegati, sussiste una presunzione semplice, superabile solo con una rigorosa prova contraria, che i dati siano stati trascritti secondo le indicazioni fornite dal titolare dell’impresa.

 Cassazione penale sez. III, 20/10/2020, n.6164

Concorre, in qualità di concorso dell’extraneus, nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, il consulente che – consapevole dei propositi distrattivi dell’imprenditore o dell’amministratore di una società in dissesto – fornisca a questi consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o lo assista nella conclusione dei relativi negozi, ovvero ancora svolga un’attività diretta a garantire l’impunità o a rafforzare, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui progetto delittuoso.

Cassazione penale sez. V, 08/10/2020, n.33114

In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma 1, lett. b), l. fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto corretta l’individuazione della prova del dolo specifico sufficiente ad integrare la condotta di occultamento nell’approvazione, da parte del liquidatore della società, di due bilanci successivi senza avere la disponibilità delle scritture contabili).

 Cassazione penale sez. V, 24/09/2020, n.32413

In tema di reati fallimentari, è sufficiente ad integrare il dolo, in forma diretta o eventuale, dell’amministratore formale la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto. (Fattispecie relativa ai reati di bancarotta fraudolenta documentale e di fallimento per effetto di operazioni dolose di una società “cartiera”, in cui la prova del dolo dell’amministratore di diritto è stata desunta dalla dichiarata conoscenza della indisponibilità di un magazzino a fronte di un elevato fatturato). 

Cassazione penale sez. V, 06/07/2020, n.22486

La bancarotta documentale ed il reato tributario di occultamento o distruzione di documenti contabili concretizzano una ipotesi di concorso formale di reati e, ove processualmente trattati congiuntamente, non configurano alcuna possibile preclusione sostanziale in termini di violazione del divieto di bis in idem. Viceversa, laddove tali fattispecie, pur aventi lo stesso oggetto materiale, siano state trattate e giudicate separatamente, e sia per una di esse già intervenuta una sentenza definitiva, l’azione penale per l’altro e residuo reato non potrà essere esercitata e, ove ciò sia avvenuto, la medesima azione dovrà essere dichiarata improcedibile, mentre ove sia già intervenuta una condanna la stessa dovrà essere annullata in sede esecutiva.

 Cassazione penale sez. V, 21/02/2020, n.21028

Sussiste il reato di bancarotta fraudolenta documentale anche quando la documentazione possa essere ricostruita “aliunde”, poiché la necessità di acquisire i dati documentali presso terzi costituisce riprova che la tenuta dei libri e delle altre scritture contabili era tale da rendere, se non impossibile, quantomeno molto difficoltosa la ricostruzione del patrimonio o del movimento di affari. (Fattispecie relativa alla fraudolenta esposizione di liquidità in conto cassa, a fronte di una acclarata situazione di dissesto, rilevata attraverso l’esame della documentazione bancaria).

 Cassazione penale sez. V, 21/02/2020, n.14689

Soggetto attivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, anche nel caso di nomina di un amministratore giudiziario a seguito di sequestro finalizzato alla confisca di prevenzione delle quote e dell’azienda di una società, è l’amministratore di questa, in quanto il sequestro non comporta la modificazione del contratto di società o la sostituzione degli organi della persona giuridica, rivestendo l’amministratore giudiziario, ai sensi dell’art. 35, comma 5, d.lg. 6 settembre 2011, n. 159, il ruolo di mero custode dei beni sequestrati e non di legale rappresentante o nuovo amministratore della società oggetto di sequestro.

 Cassazione penale sez. V, 11/02/2020, n.11752

Artifici contabili posti in essere dagli amministratori della società fallita intesi a stornare crediti vantati dalla medesima per iscriverli quali sopravvenienze passive non possono mai integrare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non venendo in alcun modo in essere in tale ipotesi una diminuzione, effettiva o fittizia, del patrimonio sociale.

 Cassazione penale sez. V, 13/01/2020, n.5081

In tema di bancarotta documentale, la condotta di falsificazione delle scritture contabili prevista dalla prima parte dell’art. 216, comma 1 n.2, l. fall. può avere natura tanto materiale che ideologica, consistendo comunque nella manipolazione di una realtà contabile già definitivamente formata; diversamente, la bancarotta documentale “generica” prevista dalla seconda parte della norma si realizza sempre con una falsità ideologica contestuale alla tenuta della contabilità, e cioè mediante l’annotazione originaria di dati oggettivamente falsi o l’omessa annotazione di dati veri, realizzata con le ulteriori connotazioni modali descritte dalla norma incriminatrice. (In applicazione del principio, la Corte ha qualificato come bancarotta documentale “generica” una condotta consistita nell’annotazione in contabilità di importi inferiori rispetto a quelli fatturati ed incassati, con conseguente occultamento dell’effettivo volume di affari).

 

 

Reati tributari

 

Art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

 

Cassazione penale sez. III, 07/11/2019, n.8995

In tema di reati tributari, il limite alla pignorabilità fissato dal comma 1, lett. a), dell’art. 76 d.P.R. n. 602/1973 nel testo introdotto dall’art. 52, comma 1, lett. g), del d.l. n. 69/2013 convertito, con modifiche, dalla l. n. 98/2013 si riferisce solo alle espropriazioni da parte del Fisco, e non a quelle promosse da altre categorie di creditori; non riguarda la “prima casa”, ma l’unico immobile di proprietà del debitore; non trova comunque applicazione alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né al sequestro preventivo ad essa preordinato.

 

Cassazione penale sez. III, 12/02/2019, n.29977

In tema di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, i costi relativi alle stesse non sono mai deducibili, con la conseguenza che la loro indicazione in dichiarazione configura una finalità di evasione e realizza un corrispondente profitto senza che rilevi in senso contrario la circostanza che, pur avendo sostenuto tali costi nei confronti del soggetto fittiziamente interposto, il destinatario della fattura sia tenuto a corrispondere nuovamente l’Iva al soggetto che ha realmente fornito la prestazione, quale normale conseguenza di ogni interposizione fittizia.

 

Cassazione penale sez. III, 30/01/2019, n.17702

In tema di reati tributari, ai sensi dell’art. 18, comma 2, d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, i delitti in materia di dichiarazione previsti dal capo primo del titolo secondo del medesimo decreto legislativo si considerano consumati nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, che, nel caso di impresa individuale, coincide con quello del titolare dell’impresa medesima.

 

Cassazione penale sez. III, 24/01/2019, n.16768

Il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti (articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000) è integrato, con riguardo all’evasione delle imposte sui redditi, dalla sola inesistenza oggettiva delle prestazioni, ove si ha diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre non è ravvisabile nell’ipotesi di inesistenza soggettiva, ove l’operazione oggetto di imposizione fiscale è stata effettivamente eseguita, rilevando la mancata corrispondenza soggettiva tra il prestatore indicato in fattura e il soggetto che abbia erogato la prestazione solo ai fini Iva.

 

Cassazione penale sez. III, 23/11/2018, n.10801

In tema di delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, la causa di non punibilità, prevista dall’art. 5-quinquies d. l. 28 giugno 1990, n. 167, che opera per l’imputato che abbia prestato collaborazione volontaria ai sensi dell’art. 5-quater del medesimo decreto legge (cd. voluntary disclosure), determina, al completamento della procedura ed al pagamento delle somme dovute, il venir meno della natura di profitto del reato delle somme derivate dalla utilizzazione delle fatture emesse per operazioni inesistenti, precludendone la confiscabilità e rendendo, conseguentemente, illegittima la protrazione di un sequestro finalizzato unicamente a detta confisca.

 

Cassazione penale sez. III, 25/10/2018, n.6360

In tema di frodi fiscali, è configurabile il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2 d.lgs.10 marzo 2000, n. 74 del 2000, ogni qualvolta il contribuente, per effettuare una dichiarazione fraudolenta, si avvalga di fatture o altri documenti che attestino operazioni realmente non effettuate, non rilevando la circostanza che la falsità sia ideologica o materiale. (In motivazione, la Corte ha escluso che il riferimento a talune ipotesi di fatturazione, contenuto nell’art. 3, comma 3, del medesimo decreto legislativo dopo la riforma di tale disposizione operata dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, abbia inciso sul rapporto di specialità reciproca esistente tra il reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 e quello di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in quanto, accanto ad un nucleo comune costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, il primo presuppone l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi relativi ad operazioni inesistenti, mentre il secondo, una falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie nonché l’impiego di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e il raggiungimento della soglia di punibilità).

 

Cassazione penale sez. III, 20/07/2018, n.53318

In tema di reati tributari, il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, tutela l’interesse dello Stato a riscuotere ciò che è dovuto nell’ambito e nei limiti del diritto tributario. (In motivazione la Corte ha precisato che l’utilizzazione delle fatture per operazioni inesistenti costituisce un ante factum meramente strumentale alla realizzazione dell’illecito).

 

Cassazione penale sez. III, 26/06/2018, n.53637

In tema di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, per la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa non assume rilievo la natura soggettiva o meno dell’operazione che ha portato all’emissione delle fatture, quanto, piuttosto, il principio generale dell’”effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”, che, se superato, inibisce l’operazione deduttiva, dei costi. Per l’effetto, devono considerarsi indeducibili i costi comunque “riconducibili” alla condotta criminosa, conseguendone che i costi sostenuti per la realizzazione della frode, essendo essi stessi lo strumento per i realizzare l’evasione di imposta, sono indeducibili e non possono essere considerati per ridurre il quantum dell’imposta evasa (la Corte ha precisato anche che sul principio affermato non esplica alcuna rilevanza la disposizione di cui all’ articolo 14, comma 4 bis della legge 24 dicembre 1993, n. 537, come modificato dall’ articolo 8, comma 1, del Dl 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012 n. 44,  perché trattasi di previsione che, nel prevedere l’indeducibilità dei soli componenti negativi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi, si limita a stabilire una regola per le sole procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, inapplicabile quindi per la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa in relazione al reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti).

 

Cassazione penale sez. III, 19/06/2018, n.52411

In tema di reati tributari, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva.

 

Cassazione penale sez. III, 24/05/2018, n.46956

In tema di reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture, la sussistenza a carico del cessionario, ai sensi dell’art. 60-bis del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, di un obbligo solidale di versamento dell’IVA gravante sul cedente, peraltro riguardante le sole cessioni reali effettuate a un prezzo inferiore al valore normale e non anche le operazioni inesistenti, non esclude che, a carico del primo, sia comunque ipotizzabile il dolo specifico di evasione, atteso che il meccanismo dell’IVA, basato sulla continuità della registrazione di debiti e crediti nelle contabilità dei soggetti operanti, ammette la possibilità che l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti sia finalizzata all’evasione.

 

Cassazione penale sez. IV, 20/03/2018, n.17401

I reati di dichiarazione fraudolenta ai fini Iva mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000 commessi in epoca precedente la pronuncia della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, Taricco, dell’8 settembre 2015, anche se non ancora prescritti a tale data, rimangono soggetti alla disciplina nazionale in materia di prescrizione, pur se questa risulti in contrasto con il diritto europeo, perché idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea. Infatti, come del resto puntualizzato dalla successiva sentenza della stessa Corte di giustizia in data 5 dicembre 2017, il contrasto – quanto al regime di prescrizione – tra il diritto europeo e il diritto nazionale non può condurre alla disapplicazione della norma di diritto interno laddove essa comporti violazione del “principio di legalità” dei reati e delle pene, nei suoi aspetti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale (la Corte, anzi, ha ritenuto tale affermazione di principio in grado di superare il vincolo formale del giudicato e, per l’effetto, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione, nonostante che il procedimento provenisse da precedente annullamento con rinvio, dove la Corte si era limitata ad annullare la sentenza in ordine al profilo sanzionatorio, onde si sarebbe dovuto considerare formato il giudicato sulla responsabilità).

 

Art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici)

Cassazione penale sez. III, 13/03/2019, n.19672

Il rilascio, da parte di professionista abilitato, di un mendace visto di conformità o di un’infedele certificazione tributaria, di cui rispettivamente agli artt. 35 e 36 d.lgs. 9 luglio 1997 n. 241, ai fini degli studi di settore, costituisce un mezzo fraudolento, idoneo ad ostacolare l’accertamento e ad indurre l’amministrazione finanziaria in errore, tale da integrare il concorso del professionista nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. (In motivazione, la Corte ha precisato che, non trovando applicazione il principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., il delitto indicato concorre con lo specifico reato previsto dall’art. 39 d.lgs. n. 241 del 1997).

 

Cassazione penale sez. III, 13/03/2019, n.24799

Anche la normale attività professionale (di regola quella di commercialista, ma anche, come nella specie, quella di avvocato, specie se esperto nella materia), qualora realizzata, pur nella sua formale aderenza ai canoni della professione, con lo scopo di concorrere alla realizzazione di un’associazione per delinquere, configura condotta penalmente rilevante per la sussistenza dell’articolo 416 del codice penale, trattandosi di reato che per la sua realizzazione comporta una condotta a forma libera, sottoposta alle sole condizioni che l’agente intenda aderire all’accordo associativo e che il suo comportamento sia, anche se parzialmente, funzionale alla realizzazione del progetto criminoso perseguito dai consociati. Tale condotta, anzi, se essenziale per l’organizzazione della struttura associativa, qualifica detta partecipazione come quella di organizzatore dell’organismo criminoso (fattispecie in materia cautelare, dove la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un avvocato, indagato in relazione al reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari, segnatamente quelli di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e indebita compensazione, risultando spiegato in modo satisfattivo il ruolo strutturato svolto, tra l’altro, nella gestione di fatto nella gestione di crediti inesistenti della società e nell’individuazione di strategie utili al raggiungimento del fine fraudolento del gruppo e nell’occultamento del proventi illeciti).

 

 Cassazione penale sez. fer., 31/08/2017, n.47603

Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) è configurabile anche nel caso in cui la falsa documentazione venga creata dal medesimo utilizzatore che la faccia apparire come proveniente da terzi, poiché la “ratio” del reato di frode fiscale risiede nel fatto di punire colui che artificiosamente si precostituisce dei costi sostenuti al fine di abbattere l’imponibile, e non presuppone il concorso del terzo.

 

Cassazione penale sez. III, 11/04/2017, n.38185

In tema di reati finanziari e tributari, anche seguito della novella apportata dal d.lgs. n. 158 del 2015, che ha aggiunto la lett. g-bis) all’art. 1d.lg. n. 74 del 2000, la condotta di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non è assorbita in quella di compimento di operazioni simulate soggettivamente, in quanto in base alla immutata definizione contenuta nella lett. a) dello stesso art. 1 d.lgs. n. 74 del 2000, sono fatture per operazioni inesistenti anche quelle che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi; ne consegue che il discrimine tra i reati previsti, rispettivamente, dagli art. 2 e 3 d.lgs. n. 74 del 2000 non è dato dalla natura dell’operazione ma dal modo in cui essa è documentata.

 

Cassazione penale sez. II, 18/10/2016, n.1673

È configurabile il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, anche nell’ambito del regime fiscale del consolidato nazionale, introdotto con il d.lgs. n. 344 del 2003, sia pur solo con riferimento alla dichiarazione consolidata, in quanto unica rispetto alla quale può essere verificato il superamento della duplice soglia di punibilità richiesto dal primo comma dell’indicato articolo.

 

Cassazione penale sez. II, 18/10/2016, n.1673

Il reato di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) è configurabile anche con riferimento alla dichiarazione che, nel caso di società ammesse alla tassazione di gruppo ai sensi dell’art. 117 t.u. delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, venga presentata dalla società controllante ai sensi dell’art. 122 del medesimo d.P.R., ed è soltanto con riguardo alla detta dichiarazione che va verificato il superamento o meno della duplice soglia di rilevanza penale prevista dalla norma incriminatrice, nulla rilevando, quindi, l’eventualità che taluna delle dichiarazioni trasmesse dalle controllate alla controllante e da questa utilizzate per la formazione della dichiarazione del reddito consolidato di gruppo dia luogo al superamento di detta soglia, quando questo risulti neutralizzato per effetto delle perdite subite da altre controllate.

 

Art.4 d.lgs. n. 74 del 2000 (dichiarazione infedele)

 

Cassazione penale sez. III, 14/09/2020, n.31195

Il reato di cui all’art. 4 d.lg. n. 74 del 2000 (dichiarazione infedele) può essere integrato anche mediante la presentazione della dichiarazione in nome della società in accomandita semplice, e, però, in tal caso, l’imposta sui redditi evasa deve essere calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci.

 

Cassazione penale sez. III, 02/07/2020, n.26089

Sussiste la responsabilità penale del professionista, a titolo di concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dal suo cliente, in caso di rilascio di un mendace visto di conformità, sia esso leggero o pesante, ovvero di un’infedele asseverazione dei dati ai fini degli studi di settore, in quanto l’apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.

 

Cassazione penale sez. III, 14/02/2020, n.18575

Il reato di dichiarazione infedele dei redditi ai fini Irpef di cui all’art. 4 d.lg. n. 74 del 2000 sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati a sequestro o confisca penale nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile. (In applicazione del principio, la Corte ha affermato che non rileva, ai predetti fini, il provvedimento ablatorio disposto contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, quale ulteriore conseguenza sanzionatoria ex art. 12-bis d.lg. n. 74 del 2000).

 

Cassazione penale sez. III, 12/11/2019, n.10916

In tema di reati tributari, il riferimento a talune ipotesi di fatturazione, contenuto nell’art. 3, comma 3, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, come riformato dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, non ha modificato il rapporto di specialità reciproca esistente tra il reato di cui all’art. 2 e quello di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo, in quanto, accanto ad un nucleo comune costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, il primo presuppone l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi relativi ad operazioni inesistenti, mentre il secondo richiede una falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie, nonché l’impiego di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento ed il raggiungimento della soglia di punibilità; ne consegue che il discrimine tra le due fattispecie è costituito dalle diverse modalità di documentazione dell’operazione economica, poiché alla particolare idoneità probatoria delle fatture corrisponde una maggiore capacità decettiva delle falsità commesse utilizzando tali documenti.

 

Cassazione penale sez. III, 22/10/2019, n.48029

In tema di patteggiamento, non è illegale la pena su accordo delle parti, comminata dal giudice anche senza l’integrale pagamento del debito. Difatti, per i reati di infedele e omessa presentazione della dichiarazione, al pari dei delitti di omesso versamento, si può accedere al patteggiamento anche senza l’estinzione del debito tributario. A sostenerlo è la Cassazione, che cambia opinione rispetto a quanto stabilito in precedenza in casi analoghi. Per i giudici di legittimità, infatti, non vi è distinzione tra le citate fattispecie e quindi per esse non può valere, ai fini del patteggiamento, la regola dell’integrale pagamento, in quanto se l’imputato corrispondesse il dovuto, entro l’apertura del dibattimento, non sarebbe più punibile e non avrebbe senso il patteggiamento.

 

Cassazione penale sez. III, 02/10/2019, n.47287

Per i reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 5, il rito speciale previsto dall’art. 444 e ss. c.p.p., è ammissibile solo quando vi sia stato l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, pur se dopo la formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, deve affermarsi che la sentenza impugnata ha illegalmente determinato la pena, applicando la diminuente del rito in assenza dei presupposti necessari.

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.24152

In tema di reati tributari, il regime fiscale di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l’esonero dall’obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili previsto dall’art. 2214 cod. civ., sicché, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può legittimamente tener conto della mancata tenuta della scritture contabili obbligatorie e della conseguente mancata tracciabilità delle movimentazioni finanziarie correlate alle operazioni economiche poste in essere.

 

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.23810

La presentazione della dichiarazione integrativa non elide la responsabilità del contribuente per il reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74/2000. Le dichiarazioni prese in considerazione dalla norma sono solo la dichiarazione annuale in tema di imposta sul reddito delle persone fisiche e delle persone giuridiche che i soggetti sono obbligati a presentare ai sensi degli artt. 1-6 d.P.R. n. 600/1973, e la dichiarazione annuale relativa all’imposta sul valore aggiunto disciplinata dall’art. 8 d.P.R. n. 322/1998.

 

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.23810

Ai fini dell’integrazione del reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 d.lgs. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 c.p., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extrapenale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile. (In applicazione del principio, la Corte ha considerato inapplicabile anche l’art. 47 c.p. nel caso di errore sulla efficacia sanante della dichiarazione integrativa rispetto a quanto riportato falsamente nella dichiarazione originaria annuale).

 

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.23810

Il delitto di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, integra un reato istantaneo che si perfeziona al momento della presentazione della dichiarazione annuale, non rilevando l’eventuale presentazione di una successiva dichiarazione integrativa.

 

Cassazione penale sez. III, 27/03/2019, n.19228

Per la verifica della sussistenza del reato di dichiarazione infedele delle imposte sui redditi nei confronti di un amministratore di società di persone la quantificazione dell’imposta evasa va riferita all’intera somma non dichiarata dai soci e non soltanto dal sodo amministratore. Ad affermarlo è la Cassazione che scioglie il dubbio se il rappresentante legale risponda del reato di dichiarazione infedele quando la soglia di imposta evasa superi quella penalmente rilevante (150mila euro) calcolandola come somma dell’Irpef non dichiarata dai singoli soci ovvero soltanto considerando l’Irpef non dichiarata nella propria dichiarazione quale persona fisica/socio. Secondo i giudici per la dichiarazione infedele, presentata da chi amministri una società di persone, si impone una valutazione unitaria dell’imposta evasa, anche ai fini della verifica della soglia di punibilità.

 

Cassazione penale sez. III, 13/03/2019, n.19672

Il professionista, reo del rilascio di un mendace visto di conformità, vuoi leggero (cfr. articolo 35 del decreto legislativo n. 241 del 1997), vuoi pesante (cosiddetta “certificazione tributaria”) (articolo 36 dello stesso decreto legislativo), ovvero di un’infedele asseverazione dei dati ai fini degli studi di settore, risulta esposto anche a sanzioni penali in ragione dell’espressa previsione di cui all’articolo 39 del decreto legislativo n. 241 del 1997 e del meccanismo del concorso di persone nel reato di cui all’articolo 110 del Cp, non trovando applicazione Il principio di specialità di cui all’articolo 15 del Cp, incorrendo peraltro questi nel reato di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 74 del 2000, dal momento che l’apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.

 

Cassazione penale sez. III, 06/02/2019, n.17535

In tema di reati tributari, il profitto di delitti consistenti nell’evasione dell’imposta per mezzo di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o di omesso versamento, che può essere oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende anche le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione. (Fattispecie in tema di reato di omesso versamento dell’i.v.a. di cui all’art. 10-ter d.lg. 10 marzo 2000 n. 74).

 

 

Cassazione penale sez. III, 29/01/2019, n.11520

In tema di successione di leggi penali, la modificazione “in melius” della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso solo se attiene a norma integratrice di quella penale. (Fattispecie, in tema di dichiarazione infedele, in cui la Corte ha affermato che il parametro di calcolo dell’imposta Ires, modificato dall’art. 1, comma 61, l. 28 dicembre 2015, n. 208, non è norma integratrice della fattispecie penale, lasciando del tutto immutati gli elementi costitutivi e la soglia di punibilità del reato previsto dall’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74).

 

Art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 (Omessa dichiarazione)

 

Cassazione penale sez. III, 14/01/2020, n.9417

La legge tributaria considera personale per il contribuente il dovere di presentare la dichiarazione fiscale e il fatto di aver affidato ad un commercialista l’incarico di compilare la dichiarazione medesima, non può esonerare il contribuente stesso dalla penale responsabilità per il delitto di omessa dichiarazione.

 

Cassazione penale sez. III, 22/10/2019, n.48029

In tema di reati tributari, in relazione al delitto di omessa dichiarazione e di indebita compensazione, rispettivamente previsti dagli artt. 5 e 10-quater d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, l’estinzione dei debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi, mediante integrale pagamento degli importi dovuti prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità dell’applicazione della pena ai sensi dell’art. 13-bis del medesimo d.lg., in quanto l’art. 13 della stessa normativa configura tale comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli artt. 2, 3, 4, 5, 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’art. 13-bis d.lg. n. 74 del 2000, disciplinando la predetta condizione per accedere al rito speciale, fa espressamente salve le ipotesi di non punibilità previste dal citato art. 13 del medesimo d.lg.).

 

Cassazione penale sez. III, 22/10/2019, n.48029

In tema di patteggiamento, non è illegale la pena su accordo delle parti, comminata dal giudice anche senza l’integrale pagamento del debito. Difatti, per i reati di infedele e omessa presentazione della dichiarazione, al pari dei delitti di omesso versamento, si può accedere al patteggiamento anche senza l’estinzione del debito tributario. A sostenerlo è la Cassazione, che cambia opinione rispetto a quanto stabilito in precedenza in casi analoghi. Per i giudici di legittimità, infatti, non vi è distinzione tra le citate fattispecie e quindi per esse non può valere, ai fini del patteggiamento, la regola dell’integrale pagamento, in quanto se l’imputato corrispondesse il dovuto, entro l’apertura del dibattimento, non sarebbe più punibile e non avrebbe senso il patteggiamento.

 

Cassazione penale sez. VI, 18/09/2019, n.44895

Integra reato la condotta dell’imputato che, invitato dall’ufficiale giudiziario ad indicare le cose o i crediti utilmente pignorabili, omette di rispondere all’invito a presentarsi presso l’ufficio UNEP nel termine di quindici giorni previsto dall’art. 492 c.p.c., comma 4. La dichiarazione resa dal debitore, pur non legata a particolari vincoli formali, deve fornire un’adeguata informativa all’ufficiale giudiziario procedente e deve considerarsi omessa non solo quando manchi del tutto allo scadere del termine espressamente stabilito dalla legge, ma anche nell’ipotesi in cui non contenga elementi utili a consentire l’esatta identificazione degli ulteriori beni pignorabili, risultando così inidonea a determinare l’effetto dell’immediata apposizione del vincolo con le forme previste dall’art. 492 cit., ossia quando non vengano indicati con certezza i beni pignorabili, la loro ubicazione, ovvero il terzo debitore con modalità idonee a consentire al creditore di procedere ai successivi adempimenti di cui all’art. 543 c.p.c..

 

Cassazione penale sez. III, 12/06/2019, n.36387

In materia di reati tributari, il momento consumativo del delitto di omessa dichiarazione da parte del sostituto d’imposta cui all’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, va fissato alla scadenza del termine dilatorio di novanta giorni concesso al contribuente, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del medesimo decreto, per presentare la dichiarazione dei redditi successivamente alla scadenza del termine ordinario.

 

Cassazione penale sez. III, 07/06/2019, n.36474

In materia di reati tributari – e, segnatamente, con riferimento al reato di omessa dichiarazione fiscale – per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato, valgono i principi generali posti dagli artt. 42 e 43 c.p., per cui – attesa la natura di reato a dolo specifico-  ai fini della punibilità dell’autore del reato, nella specie l’amministratore di diritto/prestanome, non è sufficiente il dolo generico, ma si richiede invece il dolo specifico di evasione che necessita di rigorosa prova, che non può essere affidata alla semplice, quanto irrilevante, affermazione fondata sul precetto della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale contenuto nell’ art. 5 c.p.. La circostanza di essere il legale rappresentante della società, se di regola normalmente esclude che l’imprenditore possa difendersi evocando il disposto dell’art. 5, c.p., non è ex se sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi, a far ritenere provato il dolo specifico normativamente richiesto ai fini della perseguibilità penale del fatto di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74/2000.  Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d’ingerenza nella gestione della società, il fatto gli può essere addebitato, a titolo di concorso con l’amministratore di fatto, a norma dell’art. 2392 c.c. e art. 40 cpv. c.p., a condizione che ricorra l’elemento soggettivo proprio del singolo reato. Occorre, dunque, che il giudice di merito individui, al di là della mera assunzione della carica di amministratore di diritto, ulteriori elementi che corroborino, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza del dolo specifico normativamente richiesto ai fini della perseguibilità penale della sua condotta.

 

Art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 (Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti)

 

Cassazione penale sez. III, 16/07/2019, n.40072

Il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta o per equivalente, non impedisce il sequestro preventivo cd. impeditivo ove sussista il fumus di un diverso e successivo reato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto applicabile il sequestro preventivo cd. impeditivo di una unità operativa di una società utilizzata per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, anche se era già stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente sul rilievo del differente oggetto e della differente finalità dei due istituti).

 

Cassazione penale sez. III, 24/05/2019, n.39316

In tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, non è necessario, sotto il profilo soggettivo, che il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’utilizzo delle fatture emesse sia esclusivo, essendo integrato anche quando la condotta sia commessa per conseguire anche un concorrente profitto personale.

 

Cassazione penale sez. III, 10/05/2019, n.29519

In tema di competenza per territorio relativa ai reati di emissione di più fatture per operazioni inesistenti, il criterio del luogo di iscrizione nel registro degli indagati del primo procedimento penale dettato dall’art. 18, comma 3, d lg. n. 74 del 2000, opera unicamente con riguardo a più condotte di emissione riguardanti il medesimo periodo di imposta e non anche nel caso di emissione relativa a periodi di imposta diversi.

Cassazione penale sez. III, 28/09/2018, n.53319

In tema di reati tributari, il delitto di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti è configurabile esclusivamente in caso di fatturazione che presenta una diversità tra uno o entrambi i soggetti indicati nel documento e coloro che hanno posto in essere l’operazione oggetto di imposizione fiscale e, pertanto, ha rilievo penale la sola identità individuale del soggetto e non le diverse qualifiche, qualità o altri elementi che connotano il soggetto dell’operazione inesistente. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di merito che aveva ravvisato l’inesistenza soggettiva con riguardo alla mancanza nell’acquirente della qualità di soggetto esente IVA).

 

Cassazione penale sez. III, 28/09/2018, n.53319

Il reato di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti è configurabile esclusivamente in presenza di fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, assumendo rilevanza penale solo la diversità tra uno o entrambi i soggetti indicati in fattura rispetto a coloro che hanno posto in essere l’operazione indicata. Ne consegue che tale diversità non riguarda qualifiche, qualità o altri elementi del soggetto o dei soggetti dell’operazione inesistente, bensì la sola identità individuale, che identifica il soggetto rispetto a terze parti (nella specie, la Corte ha ritenuto errata la tesi secondo cui l’inesistenza soggettiva potesse affermarsi con riguardo alla mera mancanza nell’acquirente commerciale della qualità di soggetto esente Iva).

 

Art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000 (Occultamento o distruzione di documenti contabili)

 

Cassazione penale sez. I, 15/11/2019, n.2019

Nel delitto previsto dal d.lgs.n. 74 del 2000, art. 10, allorquando l’importo dell’evasione sia stato aliunde determinato, è configurabile il profitto del reato, suscettibile di confisca, anche per equivalente, e di sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 c.p.p., comma 2-bis, con riguardo al tributo evaso e a eventuali sanzioni e interessi maturati sino al momento dell’occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, trattandosi di risparmio di spesa che costituisce vantaggio economico immediato e diretto della condotta illecita tenuta.

 

Cassazione penale sez. III, 29/10/2019, n.50350

In tema di reati tributari, l’impossibilità di ricostruire il reddito o il volume d’affari derivante dalla distruzione o dall’occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto, sussistendo anche quando è necessario procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante.

 

Cassazione penale sez. III, 09/10/2019, n.166

Nel delitto previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000, art. 10, allorquando l’importo dell’evasione sia stato aliunde determinato, è configurabile il profitto del reato, suscettibile di confisca, anche per equivalente, e di sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 c.p.p., comma 2 bis, con riguardo al tributo evaso e ad eventuali sanzioni ed interessi maturati sino al momento dell’occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, trattandosi di risparmio di spesa che costituisce vantaggio economico immediato e diretto della condotta illecita tenuta.

 

Cassazione penale sez. III, 12/03/2019, n.37348

Il reato di occultamento delle scritture contabili obbligatorie sussiste anche nell’ipotesi in cui la loro mancata reperibilità, in sede di verifica fiscale, non impedisca la ricostruzione delle pregresse attività economiche del contribuente ma la renda soltanto più difficoltosa.

 

Cassazione penale sez. III, 12/03/2019, n.37348

Il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000 è da considerare integrato in tutti i suoi elementi anche nella ipotesi in cui sia stato possibile egualmente ricostruire le operazioni compiute dal contribuente, posto che il legislatore ha inteso sanzionare anche il solo comportamento che abbia reso, sebbene non impossibile, anche soltanto più difficoltosa l’attività di verifica fiscale a causa dell’avvenuta distruzione ovvero occultamento delle scritture contabili obbligatorie (confermata la condanna per il legale rappresentante di una società che aveva trasferito, senza dichiararlo in sede di accertamento, in luogo diverso dalla sede legale della società la documentazione contabile, conservandone solo una parte).

 

Cassazione penale sez. III, 26/02/2019, n.14600

Per il reato di cui all’articolo 10 d.lgs. n. 74 del 2000 (occultamento o sottrazione dì documenti contabili), la possibilità di richiedere il patteggiamento, giusta la disciplina dettata dall’articolo 13 bis, comma 2, dello stesso decreto, è necessariamente subordinata, laddove possibile, al ravvedimento operoso (nella specie, consistente nell’esibizione, sia pure tardiva, delle scritture contabili e dei documenti eventualmente occultati e tuttavia non distrutti) e, in ogni caso, all’integrale estinzione del debito per imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto, compresi interessi e sanzioni amministrative, riferito alle annualità oggetto di accertamento e in relazione alle quali la condotta illecita è stata tenuta.

 

Cassazione penale sez. III, 15/01/2019, n.7051

In tema di reati tributari, l’impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari derivante dalla distruzione o dall’occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto, sussistendo anche quando è necessario procedere all’acquisizione presso terzi della documentazione mancante.

 

Art. 10 bis d.lgs. n. 74 del 2000  (Omesso versamento di ritenute dovute o certificate)

 

Cassazione penale sez. III, 14/02/2019, n.13610

In tema di delitto di omesso versamento di ritenute certificate, al fine di verificare se il reato è configurabile, non è sufficiente la sola verifica “a campione” delle certificazioni rilasciate ai sostituiti, in modo da pervenire ad una valutazione presuntiva dell’entità dell’inadempimento, ma è necessario che la verifica investa complessivamente tutte le certificazioni onde accertare se l’omesso versamento superi la soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice.

 

Cassazione penale sez. III, 02/04/2019, n.36320

In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, nel caso di ammissione al concordato preventivo, non è configurabile il “fumus” del reato di cui all’art. 10-bis d.lg. 10 marzo 2000, n. 74 per l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate in relazione agli obblighi scaduti successivamente alla presentazione dell’istanza di ammissione al concordato, in quanto gli effetti di tale ammissione decorrono dalla data della presentazione della relativa domanda.

 

Cassazione penale sez. III, 12/04/2019, n.41133

Per i reati di cui al d.lg. n. 74 del 2000, artt. 4, 5, 10-bis e 10-ter e art. 10-quater, comma 1, l’accesso al rito speciale ex art. 444 c.p.p., non è condizionato dall’avvenuto tempestivo pagamento delle somme dovute a titolo di imposta ed accessori dall’imputato all’Erario, potendo accendersi ad esso anche a prescindere da tale adempimento.

 

Cassazione penale sez. III, 23/01/2019, n.22061

In tema di omesso versamento di ritenute operate quale sostituto di imposta il profitto del reato consiste nel corrispondente risparmio di spesa e, in particolare, nelle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente alla data di scadenza del termine per il pagamento e non versate. Ne consegue che il sequestro, per essere qualificato come finalizzato alla confisca diretta del denaro costituente il profitto del reato omissivo, non può mai essere disposto, né essere eseguito, per importi comunque superiori ai saldi attivi giacenti sui conti bancari e/o postali di cui il contribuente disponeva alla scadenza del termine per il pagamento, né su somme di danaro acquisite successivamente alla consumazione del reato.

 

Cassazione penale sez. III, 23/01/2019, n.22061

Il reato di omesso versamento di ritenute certificate previsto dall’art. 10-bis d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, essendo integrato da una condotta insussistente, si realizza e si consuma con l’omissione del versamento che supera la soglia minima prevista alla scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo d’imposta dell’anno precedente.

 

Art. 10 ter  d.lgs. n. 74 del 2000 (Omesso versamento IVA)

 

Cassazione penale sez. III, 28/01/2020, n.8519

L’omesso versamento IVA non può essere giustificato ex art. 51 c.p. dal pagamento degli stipendi dei lavoratori dipendenti, in quanto l’ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l’adempimento prioritario dei crediti da lavoro dipendente rispetto ai crediti erariali, vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi.

 

Cassazione penale sez. III, 04/10/2019, n.50007

Il tentativo di preservare la continuità aziendale non autorizza l’imprenditore a non versare l’i.v.a. prediligendo il pagamento di altri creditori. (Nel caso di specie, la S.C. ha respinto il ricorso del rappresentante legale di una s.r.l. condannato per l’omesso versamento degli oltre 300mila euro indicati nella dichiarazione annuale. Sottolineando che non si configura l’esimente della forza maggiore se l’imprenditore, in crisi aziendale, ha utilizzato le risorse per pagare altri creditori).

 

Cassazione penale sez. III, 04/10/2019, n.50007

Il reato di omesso versamento i.v.a. è integrato dalla scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti, a nulla rilevando la circostanza che la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziare per fare fronte a pagamenti di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento della obbligazione contratta con l’Erario.

 

Cassazione penale sez. III, 01/10/2019, n.1431

In tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (nella specie, l’imputato aveva giustificato senza successo che l’inadempimento fosse dovuto a forza maggiore per l’aumento dei costi dell’attività di allevamento del bestiame, in particolare per i costi di alimentazione).

 

Cassazione penale sez. III, 16/09/2019, n.45694

Ai fini della configurabilità del reato di omesso versamento IVA di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000 non assume rilevanza, né sul piano dell’elemento soggettivo, né su quello della esigibilità della condotta, la mera presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, la quale non impedisce il pagamento dei debiti tributari che vengano a scadere successivamente alla sua presentazione, ma prima dell’adozione di provvedimenti da parte del Tribunale.

 

Cassazione penale sez. III, 12/09/2019, n.47101

L’esito positivo della messa alla prova blocca la confisca per equivalente disposta nei confronti dell’evasore fiscale. Sottolineando che la confisca per equivalente non è una sanzione amministrativa accessoria, la Cassazione ha accolto il ricorso contro la decisione del tribunale, che dava il via libera alla confisca per equivalente delle somme oggetto di sequestro preventivo, pur avendo dichiarato di non doversi procedere per il reato di omesso versamento dell’Iva perché estinto grazie all’esito positivo della messa alla prova. La Suprema corte ricorda che la confisca, prevista dalla legge sui reati tributari (articolo 12-bis del Dlgs 74/2000), può essere disposta solo in presenza di una sentenza di condanna o in caso di patteggiamento, non invece nell’ipotesi, come nella fattispecie, di estinzione del reato grazie al superamento della messa alla prova ex articolo 168-ter del codice penale.

 

Cassazione penale sez. III, 04/07/2019, n.36709

In tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’Iva cui al d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter, non può essere giustificato, ai sensi dell’art. 51 c.p., dal pagamento degli stipendi dei lavoratori dipendenti, posto che l’ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l’adempimento prioritario dei crediti da lavoro dipendente (art. 2777 c.c.) rispetto ai crediti erariali (art. 2778 c.c.), vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi, ove non opera il principio della “par condicio creditorum”.

 

Cassazione penale sez. III, 20/06/2019, n.38482

In tema di omesso versamento i.v.a., l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore a cui egli non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico. Quindi, se l’omesso versamento è dovuto ad una libera scelta imprenditoriale, non può essere invocata la forza maggiore per escludere la sussistenza del dolo. (Fattispecie in cui l’imputato ha utilizzato il flusso finanziario derivante da una vendita sottocosto di un cespite immobiliare per far fronte alle spese correnti, invece che accantonarlo per il successivo versamento dell’imposta).

 

Art. 10 quater  d.lgs. n. 74 del 2000 (Indebita compensazione)

 

Cassazione penale sez. III, 22/10/2019, n.48029

In tema di reati tributari, in relazione al delitto di omessa dichiarazione e di indebita compensazione, rispettivamente previsti dagli artt. 5 e 10-quater d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, l’estinzione dei debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi, mediante integrale pagamento degli importi dovuti prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità dell’applicazione della pena ai sensi dell’art. 13-bis del medesimo d.lg., in quanto l’art. 13 della stessa normativa configura tale comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli artt. 2, 3, 4, 5, 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’art. 13-bis d.lg. n. 74 del 2000, disciplinando la predetta condizione per accedere al rito speciale, fa espressamente salve le ipotesi di non punibilità previste dal citato art. 13 del medesimo d.lg.).

 

Cassazione penale sez. III, 25/09/2019, n.1722

In tema di reati tributari, l’amministratore di fatto risponde, quale autore principale, del delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater d.lg. 10 marzo 2000, n. 74, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, come mero prestanome, è responsabile del medesimo reato a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento, ai sensi degli artt. 40, comma 2, c.p. e 2639 c.c., a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza con la quale è stata affermata la sussistenza del dolo eventuale dell’amministratore di diritto, desumendola, oltre che dall’accettazione della carica, da una pluralità di elementi fattuali convergenti, che ne comprovavano la consapevolezza delle criticità gestionali della società e lo svolgimento di un ruolo attivo in ambito societario, con conseguente accettazione del rischio relativo alla commissione di reati da parte dell’amministratore di fatto).

 

Cassazione penale sez. III, 20/06/2019, n.44737

In tema di indebita compensazione, l’illecito si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto della compensazione, ai sensi dell’art. 17 d.lg. n. 241/1997, di crediti in realtà non spettanti o inesistenti. (Fattispecie in cui la prova dell’esecuzione di compensazioni indebite è stata desunta dalle annotazioni sul libro giornale e dalle dichiarazioni IVA).

 

Cassazione penale sez. III, 20/06/2019, n.44737

Il delitto di indebita compensazione si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale. L’indebita compensazione deve, dunque, risultare dal modello F24 mediante il quale la stessa è stata realizzata, indicandovi, appunto in compensazione, crediti inesistenti o non spettanti, trattandosi dello strumento imposto dal legislatore tributario per poter eseguire le compensazioni tra debiti e crediti tributari, che, quindi, non possono che essere realizzate attraverso la presentazione di tale modello debitamente compilato, in difetto del quale non può dirsi sussistente una compensazione.

 

Cassazione penale sez. III, 13/03/2019, n.24799

Anche la normale attività professionale (di regola quella di commercialista, ma anche, come nella specie, quella di avvocato, specie se esperto nella materia), qualora realizzata, pur nella sua formale aderenza ai canoni della professione, con lo scopo di concorrere alla realizzazione di un’associazione per delinquere, configura condotta penalmente rilevante per la sussistenza dell’articolo 416 del codice penale, trattandosi di reato che per la sua realizzazione comporta una condotta a forma libera, sottoposta alle sole condizioni che l’agente intenda aderire all’accordo associativo e che il suo comportamento sia, anche se parzialmente, funzionale alla realizzazione del progetto criminoso perseguito dai consociati. Tale condotta, anzi, se essenziale per l’organizzazione della struttura associativa, qualifica detta partecipazione come quella di organizzatore dell’organismo criminoso (fattispecie in materia cautelare, dove la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un avvocato, indagato in relazione al reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari, segnatamente quelli di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e indebita compensazione, risultando spiegato in modo satisfattivo il ruolo strutturato svolto, tra l’altro, nella gestione di fatto nella gestione di crediti inesistenti della società e nell’individuazione di strategie utili al raggiungimento del fine fraudolento del gruppo e nell’occultamento del proventi illeciti).

 

Art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 (Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte)

 

Cassazione penale sez. III, 20/11/2019, n.5711

Il profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di “sgravio” da parte dell’Amministrazione finanziaria.

 

Cassazione penale sez. III, 16/10/2019, n.9380

L’eventuale capienza dei beni di cui è stato disposto il sequestro in via diretta in relazione al reato di bancarotta fraudolenta, o comunque la loro idoneità a soddisfare il debito tributario, non impedisce di disporre anche il sequestro per equivalente dei beni dell’amministratore della società, stante l’attuale indisponibilità dei beni costituenti il profitto del reato derivante dalla apposizione del vincolo in relazione al reato di bancarotta, e la conseguente impossibilità di procedere in via diretta al sequestro del profitto del reato tributario.

 

Cassazione penale sez. V, 14/06/2019, n.37326

Seppure l’operazione di scissione è in se lecita ed ha portata neutrale, la sua eventuale natura fraudolenta può essere desunta dal concreto atteggiarsi della vicenda. Ai fini della individuazione del reato di sottrazione fraudolenta bisogna inoltre tenere conto del fatto che, in caso di cessione conforme a legge, la responsabilità del cessionario dell’azienda ha carattere sussidiario, con beneficium excussionis, ed è limitata, nel quantum, al valore della cessione e, nell’oggetto, alle imposte e sanzioni relative a violazioni commesse dal cedente nel triennio prima del contratto. In riferimento ai debiti tributari solo l’accertamento della natura simulata della cessione rende applicabile la responsabilità illimitata in solido, laddove, comunque, oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta non è il diritto di credito dell’Erario, bensì la garanzia generica rappresentata dai beni dell’obbligato.

 

Cassazione penale sez. V, 14/03/2019, n.32018

Il profitto del reato di cui all’art. 11 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) è rappresentato dal valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti della Amministrazione finanziaria per le imposte evase e non già dal debito tributario rimasto inadempiuto.

 

Cassazione penale sez. V, 01/02/2019, n.8850

Il valore del sequestro per equivalente prodromico alla confisca d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 12 bis, in relazione al reato di cui all’art. 11, del medesimo decreto deve essere commisurato a quello dei beni fraudolentemente sottratti alle pretese tributarie dello Stato e non già al valore dell’intera pretesa fiscale.

 

Sequestri per equivalente e confische per reati tributari

 

Cassazione penale  n. 25317/2023

La  Corte di cassazione in riferimento a ricorso proposto avverso sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’ art. 444 c.p.p., ha ribadito che la confisca per equivalente del profitto del reato va obbligatoriamente disposta, anche con la sentenza di applicazione di pena, pur laddove essa non abbia formato oggetto dell’accordo tra le parti, attesa la sua natura di vera e propria sanzione della confisca, non commisurata alla gravità della condotta né alla colpevolezza dell'autore, ma diretta a privare quest’ultimo del beneficio economico tratto dall’illecito, anche di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto principale dell'attività criminosa, fatta salva la possibilità, per l’imputato, di individuare l’oggetto del sequestro in sede di indagine, ovvero elevare specifiche contestazioni, ad esempio in ordine all’importo dei beni sequestrati in misura superiore al profitto dei reati contestati. Anche in riferimento alla confisca disposta all’esito di sentenza di patteggiamento, in ogni caso, va fatta applicazione – se necessario - del principio solidaristico, secondo cui la confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti nel reato, anche per l’intera entità del profitto accertato, indipendentemente dalla quota del medesimo riferibile ad ognuno di loro, ed anche qualora il singolo correo non sia entrato nella disponibilità di alcuna parte del provento illecito.

 

Cassazione penale n. 23299 del 29/05/2023

La Cassazione, sezione terza penale,  si pronuncia sul tema giuridico della legittimità della confisca per equivalente, disposta sul patrimonio personale del legale rappresentante dell’impresa, quando manca la possibilità di aggredire quello della società. Nel caso di specie i giudici del doppio grado di merito avevano, concordemente, ritenuto responsabile l’imputato del reato di omesso versamento dell’iva e disposto la confisca per equivalente dei suoi beni per un importo corrispondente al profitto del reato tributario non ritenendo possibile la confisca diretta sul patrimonio dell’Ente.  Contro la sentenza della Corte territoriale di Messina interponeva ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, deducendo, tra l’altro, l’illegittimità del capo di sentenza relativo alla confisca, sul presupposto che nel corso del dibattimento non era stato svolto un adeguato accertamento sul patrimonio della società che aveva beneficiato del risparmio sull’imposta indiretta. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

“…Sul punto, in via preliminare, occorre richiamare la condivisa affermazione di  questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Rv. 274816 – 06), secondo cui, in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, l’onere motivazionale del giudice che dispone la confisca di valore prevista dall’art. 12 bis del d.lgs. n. 74 del 2000 di beni dell’imputato, attesa la natura obbligatoria di detto provvedimento, è limitato alla sussistenza dei presupposti legali della sua applicazione, consistenti nella impossibilità di disporre la confisca diretta del profitto o del prezzo del reato nel patrimonio della persona giuridica, nella disponibilità del bene oggetto di confisca per equivalente da parte dell’autore materiale del reato e nella corrispondenza del valore del bene al profitto o al prezzo del reato, dovendosi altresì ribadire (cfr. Sez. 3, n. 3591 del 20/09/2018, dep. 2019, Rv. 275687) che, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente (oltre che la successiva confisca) possono essere disposti nei confronti del legale rappresentate di una società solo nel caso in cui, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nel patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo necessaria, tuttavia, ai fini dell’accertamento di tale impossibilità, l’inutile escussione del patrimonio sociale, se vi sono già elementi sintomatici dell’inesistenza di beni in capo all’ente. Orbene, la Corte territoriale si è posta in sintonia con tali coordinate interpretative, richiamando, in modo pertinente, sia il riscontro di importanti iscrizioni ipotecarie sul patrimonio della società amministrata da [omissis] sia “la concreta insufficienza, in rapporto all’accertato credito dell’Erario, di poste attive patrimoniali e finanziarie scaturenti dai bilanci societari, peraltro prodotti ex art. 603 cod. proc. pen. dallo stesso appellante”; alla luce di tali risultanze, è stato dunque ragionevolmente ritenuto legittimo l’esecuzione del provvedimento ablatorio per equivalente dei beni della disponibilità dell’imputato”.

 

Cassazione penale sez. II, 12/01/2023, n.16728

La seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ripercorso le coordinate ermeneutiche dell’art. 10-quater, D.L.vo 10 marzo 2000, n. 74, osservando, con riguardo alla nozione di profitto ai fini della confisca per equivalente, che il vantaggio economico di diretta derivazione causale dal reato tributario di indebita compensazione non può che coincidere con il risparmio economico ottenuto dall'agente dal compimento di tale operazione, mediante la quale viene sottratto – e, dunque, evaso – l'intero ammontare degli importi compensati alla loro destinazione fiscale.

 

Cassazione penale sez. III, 23/10/2019, n.47837

La confisca diretta o di valore dei beni costituenti il profitto o il prodotto del reato non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro, quando viene assunto un impegno formale con le modalità previste per legge, permanendo, invece, per le parti residue.

 

Cassazione penale sez. III, 09/10/2019, n.166

Nel delitto previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000, art. 10, allorquando l’importo dell’evasione sia stato aliunde determinato, è configurabile il profitto del reato, suscettibile di confisca, anche per equivalente, e di sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 c.p.p., comma 2 bis, con riguardo al tributo evaso e ad eventuali sanzioni ed interessi maturati sino al momento dell’occultamento o distruzione delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, trattandosi di risparmio di spesa che costituisce vantaggio economico immediato e diretto della condotta illecita tenuta.

 

Cassazione penale sez. III, 02/10/2019, n.47104

In tema di reati tributari, in caso di pronuncia di estinzione del reato fiscale per esito positivo della messa alla prova disposta nei confronti dell’imputato, non essendo tale declaratoria estintiva del reato equiparabile alla pronuncia di una sentenza di condanna, alla adozione della stessa non può seguire la confisca del profitto nella forma per equivalente.

 

Cassazione penale sez. III, 02/10/2019, n.47103

In tema di reati tributari, l’onere di indicare l’ammontare delle utilità esistenti al momento della consumazione del reato nel patrimonio del soggetto nei cui confronti si intende procedere a sequestro finalizzato alla confisca, che costituiscono il “risparmio di spesa” determinato dalla violazione dell’obbligo fiscale, grava sul pubblico ministero, secondo le regole generali in tema di ripartizione dell’onere della prova e secondo quanto dispone, anche per la determinazione della misura di sicurezza, l’ art. 187 cod. proc. pen.

 

Cassazione penale sez. III, 12/09/2019, n.47101

L’esito positivo della messa alla prova blocca la confisca per equivalente disposta nei confronti dell’evasore fiscale. Sottolineando che la confisca per equivalente non è una sanzione amministrativa accessoria, la Cassazione ha accolto il ricorso contro la decisione del tribunale, che dava il via libera alla confisca per equivalente delle somme oggetto di sequestro preventivo, pur avendo dichiarato di non doversi procedere per il reato di omesso versamento dell’Iva perché estinto grazie all’esito positivo della messa alla prova. La Suprema corte ricorda che la confisca, prevista dalla legge sui reati tributari (art. 12 bis D.lgs. 74/2000), può essere disposta solo in presenza di una sentenza di condanna o in caso di patteggiamento, non invece nell’ipotesi, come nella fattispecie, di estinzione del reato grazie al superamento della messa alla prova ex articolo 168-ter del codice penale.

 

 

Cassazione penale sez. III, 16/07/2019, n.40072

Il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente o diretta eseguito in relazione a un reato tributario, non esclude un ulteriore sequestro volto a impedire un successivo delitto. Ad affermarlo è la Cassazione che si è pronunciata favorevolmente al sequestro preventivo impeditivo dell’unità produttiva della società utilizzata per l’emissione di fatture inesistenti, anche se era già stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente. Per la Corte, infatti, il sequestro già disposto del profitto dei reati tributari o del valore equivalente ha oggetto e finalità differenti da quello impeditivo.

 

Cassazione penale sez. III, 15/07/2019, n.42946

Quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato sul presupposto dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia stata fornita la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta.    

 

Cassazione penale sez. III, 26/06/2019, n.40793

In tema di reati tributari, la disposizione di cui all’art. 12-bis, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000 – secondo la quale la confisca, diretta o per equivalente, a seguito di condanna o applicazione della pena per uno dei delitti previsti dal citato d.lgs., «non opera per la parte del profitto o del prezzo del reato che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro» – va intesa nel senso che il raggiungimento dell’accordo con il Fisco non preclude l’adozione (ed il mantenimento) del sequestro preventivo funzionale alla successiva ablazione del profitto, da determinarsi nella misura concordata su base negoziale fra contribuente ed Agenzia delle entrate, ma nel senso che esso ne sospende la possibilità di esecuzione fino al verificarsi del mancato pagamento del debito; solo l’avvenuto adempimento dell’obbligazione tributaria da parte del contribuente, secondo i termini ed i modi convenuti, ha effetto impeditivo della confisca.

 

Cassazione penale sez. II, 06/06/2019, n.31549

In tema di confisca di prevenzione, il rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute irregolarmente fuori dal territorio dello Stato (c.d. “scudo fiscale”), ai sensi dell’art. 13-bis d.l. 1 luglio 2009, n. 78, conv. con modificazioni dalla l. 3 agosto 2009, n. 102, non esclude il requisito della sproporzione reddituale e non trasforma “ex se” le somme di provenienza illecita in proventi leciti, quando non sia adempiuto l’onere, da parte del proposto, di indicare gli specifici elementi da cui desumere che le somme rimpatriate o regolarizzate corrispondono esclusivamente a quelle oggetto delle violazioni penaltributarie a lui contestate.

 

Cassazione penale sez. III, 24/05/2019, n.28583

In tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’ art. 12 bis d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento.

 

Cassazione penale sez. III, 10/05/2019, n.29431

In sede di riesame avverso il decreto di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, fatti salvi i casi di manifesta sproporzione tra il valore dei beni oggetto del provvedimento ablatorio ed il “quantum” del profitto del reato indicato nella richiesta al giudice per le indagini peliminari della pubblica accusa, il tribunale non ha il potere di compiere accertamenti diretti a verificare il rispetto del principio di proporzionalità, essendo tenuto tuttavia a valutare il contenuto dell’eventuale consulenza tecnica presentata dalla parte ricorrente.

 

Cassazione penale sez. III, 18/04/2019, n.38608

La previsione dell’art. 52 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, secondo cui la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi e i diritti reali di garanzia anteriori al sequestro, sebbene riferita alla cd. confisca di prevenzione, esprime un principio generale, valido anche per gli altri tipi di confisca, diretta o per equivalente, per i quali venga in rilievo la posizione del terzo titolare di diritti di credito o di garanzia, ivi compresa quella in ambito tributario di cui all’art. 12 bis D.lgs. 74 del 10 marzo 2000.

 

Cassazione penale sez. VI, 18/04/2019, n.24432

In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per sproporzione, eseguito su conto corrente cointestato all’indagato e a soggetto estraneo al reato, la misura cautelare si estende all’intero importo in giacenza, senza che a tal fine rilevino presunzioni o vincoli posti dal codice civile (artt. 1289 e 1834), regolativi dei rapporti interni tra creditori e debitori solidali, ma è fatta salva la facoltà per il terzo di dimostrare l’esclusiva titolarità di tali somme e la conseguente illegittimità del vincolo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato senza rinvio il sequestro di un libretto di deposito postale nominativo cointestato con i genitori dell’indagato, alimentato esclusivamente dai ratei pensionistici di questi ultimi, dai proventi della vendita di un immobile privo di alcun collegamento con la condotta criminosa, nonché dagli investimenti rivenienti dalla medesima provvista lecita).

 

Cassazione penale sez. IV, 11/04/2019, n.31002

È legittimo il sequestro per equivalente sull’intero ammontare dell’imposta evasa, comprese le somme oggetto di procedure conciliative. Difatti, il giudice penale ben può discostarsi dall’ammontare dell’imposta evasa per l’adozione e il mantenimento del provvedimento cautelare in funzione della confisca, anche nei casi di raggiunti accordi conciliativi con l’erario, quali la rateazione del debito e l’accertamento con adesione. Ad affermarlo è la Cassazione che sottolinea come, sulla scorta di elementi di fatto, il giudice può assolutamente discostarsi dalla quantificazione del profitto come risultante dalla conclusione di accordi conciliativi con le Entrate, poiché diversamente ragionando si sarebbe pervenuti all’Introduzione di una pregiudiziale tributarla non prevista nell’ordinamento giuridico.

 

Cassazione penale sez. II, 15/03/2019, n.27932

In tema di misure di prevenzione, è legittima la confisca di beni acquistati con il ricavato dalla dismissione di altri beni, la cui acquisizione non trova conforto in una proporzionata disponibilità finanziaria, reddituale o comunque lecita, nel periodo di riferimento. (Fattispecie relativa alla confisca di un immobile abitativo costituente il reimpiego di redditi derivanti dalla conduzione di fondi acquistati “in regime di sproporzione” e dalla partecipazione a società costituite in assenza di risorse finanziarie lecite).

 

Cassazione penale sez. V, 01/02/2019, n.8850

Il valore del sequestro per equivalente prodromico alla confisca d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 12 bis, in relazione al reato di cui all’art. 11, del medesimo decreto deve essere commisurato a quello dei beni fraudolentemente sottratti alle pretese tributarie dello Stato e non già al valore dell’intera pretesa fiscale.

 

 

 

Cassazione penale sez. I, 16/01/2019, n.12629

In tema di confisca di prevenzione, la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del familiare o del terzo intestatario fittizio del bene in favore del proposto non può essere da costoro giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, giacché, altrimenti, sarebbero illogicamente rese inoperative le rispettive presunzioni di interposizione fondate, per quanto attiene ai familiari ed al coniuge, sulla massima di comune esperienza della comunanza di interessi patrimoniali e di redditi nell’ambito dell’unità familiare entro cui si colloca la persona socialmente pericolosa, e, per quanto attiene al terzo, sull’accertamento di cui all’art. 26, d.lg. 6 settembre 2011, n. 159.

 

Reati connessi ai bonus fiscali

 

Cassazione penale n. 18536 del 4 maggio 2023 

La sentenza n. 18536 del 4 maggio 2023 della Cassazione ha per oggetto un'ordinanza del Tribunale del Riesame di Foggia su un'associazione a delinquere finalizzata a creare fittiziamente, mediante l'emissione di fatture per operazioni inesistenti con riferimento ai lavori edili da compiere in almeno 246 cantieri, crediti di imposta in materia di bonus edilizi, crediti ceduti o a intermediari finanziari o a società di grandi dimensioni. La Cassazione ritiene che “nel caso di specie, rispetto alla valutazione del fumus commisi delicti, non sia configurabile né una violazione di legge, né un'apparenza di motivazione, avendo il Tribunale del Riesame adeguatamente illustrato le ragioni poste a fondamento della propria decisione. In proposito, sono state innanzitutto richiamate le attività investigative svolte dall'Agenzia delle Entrate, Divisione Contribuenti, Settore Contrasto Illeciti, Sezione Analisi e Strategie Antifrode, che ha riscontrato una serie di anomalie nella verifica del meccanismo di cessione dei crediti di imposta effettuato da alcuni operatori economici nell'ambito di taluni interventi realizzati nel regime di detrazioni fiscali introdotto durante l'emergenza pandemica allo scopo di favorire la ripresa economica nel settore edilizio (cd. "superbonus al 110%, bonus facciate, ecobonus, bonus ristrutturazioni e sismabonus")”. In particolare, “sono stati individuati alcuni soggetti, società e persone fisiche, che hanno ideato, realizzato e gestito un sistema fraudolento, finalizzato alla creazione e alla monetizzazione di falsi crediti di imposta per oltre un miliardo di euro: la simulazione della sussistenza dei presupposti costitutivi del beneficio fiscale, ovvero del diritto del contribuente alla detrazione dell'imposta lorda dell'intero importo delle spese sostenute per gli interventi di cui al decreto legge n. 34 del 2020, è risultata strumentale alla creazione di crediti di imposta inesistenti, in funzione del conseguimento di un duplice obbiettivo illecito: da un lato, l'indebito ottenimento di ingenti liquidità monetarie di lecita provenienza, conseguite grazie alla cessione dei crediti a istituti bancari o intermediari finanziari, in taluni casi attraverso la previa cessione intermedia a società o persone fisiche compiacenti; dall'altro lato, l'elusione fiscale, attuata mediante l'indebita compensazione dei crediti di imposta, con conseguente locupletazione dei profitti derivanti dall'omesso versamento delle imposte dovute (cd. risparmio di spesa)”. In relazione a 246 pratiche edilizie, è stato accertato che per ben 196 difettavano i necessari titoli abilitativi (permesso di costruire e autorizzazione sismica), fermo restando che dei 246 interventi programmati, ne sono risultati concretamente avviati solo 45. Le fatture emesse in relazione agli interventi erano relative a operazioni inesistenti e dunque erano fittizie le collegate cessioni di credito.

 

Cassazione, sez. III penale n. 16728 del 19/04/2023

La Suprema Corte si è pronunciata in sede cautelare reale sul tema giuridico della configurabilità del delitto tributario previsto e punito dall’art.10 – quater d.lgs. n.74/2000 nell’ipotesi in cui il debito da compensare risulta già iscritto al ruolo presso l’Agente della Riscossione.  Nel caso di specie, Il Tribunale cautelare di Rimini rigettava la richiesta di riesame contro la quale la difesa dell’indagato interponeva ricorso per cassazione per mezzo di plurimi motivi. Con una articolazione difensiva, veniva denunciato vizio di legge dell’ordinanza impugnata in quanto, si è sostenuto, il reato in provvisoria contestazione non si era consumato con la presentazione dell’F/24, trattandosi di compensazione inerente a debiti erariali già iscritti a ruolo presso l’Agente della Riscossione. Argomentava la difesa che in questo specifico caso le modalità per la operatività della compensazione previste dalla legge secondo il D.M. 10 febbraio 2011, comportavano che l’Agenzia delle Entrate doveva rilasciare il nulla osta trasmettendolo all’Ente di Riscossione; circostanza che non si era realizzata, essendo stata bloccata l’operazione di compensazione da parte della Agenzia delle Entrate in seguito alla indagine in corso, sicché gli importi a debito del ricorrente risultavano ancora dovuti nei confronti dell’Ente riscossore. La Suprema Corte, ponendosi in continuità con lo stabile orientamento di legittimità, ha dichiarato inammissibile il ricorso, statuendo quanto segue sulla questione di diritto in disamina. “Quanto al primo motivo – e premesso che l’indagato non si duole della misura cautelare reale relativa al reato di cui all’art. 648-ter contestatogli ma solo a quella frazione inerente al reato di cui all’art. 10-quater, d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 – secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità alla quale il Collegio aderisce, il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale; non rilevano, pertanto, l’eventuale mancato computo della compensazione da parte dello Stato ed il conseguente non aggiornamento del c.d. cassetto fiscale, in quanto tali operazioni, successive alla presentazione del modello indicato, sono soltanto ricognitive del rapporto obbligatorio tra Amministrazione e contribuente, senza alcun effetto costitutivo o modificativo.

 

Reati bancari e finanziari

Cass. V Sez. Cass. Pen. sentenza n. 39000 14 ottobre 2022

La sentenza  è stata emessa in relazione al ricorso proposto dalla difesa di un imputato, ritenuto responsabile, nei due gradi del giudizio di merito, del reato di esercizio abusivo di attività finanziaria (art. 132, D.Lgs. n. 1 settembre 1993, n. 385, recante “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, TUB). La difesa del ricorrente denunciava erronea applicazione o interpretazione dell’art. 132 TUB assumendo che nella vicenda oggetto di processo fossero in contestazione autonomi e occasionali mutui non onerosi ritualmente stipulati tra privati, come tali non inquadrabili nelle attività finanziarie rilevanti ex art. 132 TUB quali attività sottoposte a controllo e rivolte al pubblico. Assumeva inoltre che l’estemporaneità delle attività finanziarie de quibus escludesse il requisito della professionalità e della destinazione al pubblico dell’attività finanziaria, non essendo i soggetti interessati nemmeno indeterminati. La Sezione assegnataria del ricorso ha colto l’occasione per fornire una serie di chiarimenti in ordine al reato in contestazione. Ha a riguardo precisato che commette il suddetto reato, chi pone in essere le condotte di finanziamento previste dall’art. 106 del TUB inserendosi nel libero mercato e sottraendosi ai controlli di legge, purché l’attività, anche se in concreto realizzata per una cerchia ristretta di destinatari, sia rivolta ad un numero potenzialmente illimitato di soggetti e sia svolta professionalmente, ovvero in modo continuativo e non occasionale, non essendo invece necessario il perseguimento di uno scopo di lucro o, comunque, di un obiettivo di economicità, posto che “il carattere di professionalità non implica il perseguimento di uno scopo di lucro, o, quantomeno, di un obiettivo di economicità (pareggio tra costi e ricavi)”. Ad avviso dei giudici di legittimità la tesi del ricorrente secondo cui sarebbero esclusi dall’ambito punitivo della norma “i finanziamenti nei quali è escluso il pagamento di interessi o altri oneri” - in forza del richiamo operato dall’art. 106, comma 3, TUB al D.M 53 del 2015 che, all’art. 2, ricomprende nell’attività di finanziamento il credito ai consumatori come definito dall’art. 121 TUB, norma che a sua volta andrebbe coordinata con l’art. 122 TUB che qualificherebbe come eccezione alla normativa i finanziamenti nei quali è escluso il pagamento di interessi o oneri – sarebbe frutto di un errore interpretativo; ciò, in quanto il DM 53/2015 sarebbe richiamato dall’art. 106 cit. in relazione all’individuazione delle circostanze nelle quali “ricorra l’esercizio nei confronti del pubblico”; pertanto la norma richiamata sarebbe quella concernente, appunto, l’ “esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti” ovvero (non l’art. 2 ma) l’art. 3: quest’ultima disposizione esclude l’operatività nei confronti del pubblico, fra l’altro, per quei finanziamenti concessi da produttori di beni e servizi o da società del gruppo di appartenenza, a soggetti appartenenti alla medesima filiera produttiva o distributiva del bene o del servizio quando i destinatari del finanziamento non siano consumatori cioè, ai sensi dell’art. 121 TUB, “non agiscano per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Quanto al requisito delle professionalità, la Corte ha rimarcato la giurisprudenza di legittimità secondo cui la professionalità debba essere intesa in senso ampio, come compimento di “una serie coordinata di atti rientranti nelle tipologie previste”, il che non implica necessariamente il perseguimento di uno scopo di lucro, o, quantomeno, di un obiettivo di economicità (pareggio tra costi e ricavi). Ravvisando anche tale requisito nei molteplici finanziamenti intervenuti nella vicenda al suo esame in un arco temporale non certo modesto, ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Cassazione Penale, Sez. V, 4 maggio 2022, n. 17789 

L’art. 185 T.U.F. sulla manipolazione del mercato configura un delitto di condotta e di pericolo concreto, il cui giudizio di prognosi postuma, ex ante e in concreto, va effettuato dalla ‘posizione’ dell’investitore ragionevole, così come definito dal ‘considerando’ n. 14 del Regolamento (UE) n. 596/2014 relativo agli abusi di mercato, vale a dire dell’investitore che «basa le proprie decisioni di investimento sulle informazioni già in suo possesso, vale a dire su informazioni disponibili precedentemente» e «occorre considerare l’impatto previsto dell’informazione alla luce dell’attività complessiva dell’emittente in questione, l’attendibilità della fonte di informazione, nonché ogni altra variabile di mercato che, nelle circostanze date, possa influire sugli strumenti finanziari […]». Oltre alla verifica ex ante è anche possibile, a riscontro della prima e in modo mai autosufficiente, una verifica ex post sulla effettiva alterazione dei titoli, che se ragionevolmente coerente con le emergenze ex ante, può costituire un elemento sintomatico, di conferma della idoneità o della inidoneità della condotta a determinare l’alterazione del prezzo dei titoli quotati in borsa.

 

Cassazione penale, Sez. V n. 25815 del 10 settembre 2020

 Commette il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria, a norma dell’art. 132 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, chi pone in essere le condotte previste dall’art. 106 d.lgs. cit. inserendosi nel libero mercato e sottraendosi ai controlli di legge, purché l’attività, anche se in concreto realizzata per una cerchia ristretta di soggetti, sia rivolta ad un numero potenzialmente illimitato di persone. (Fattispecie relativa alla instaurazione di una prassi commerciale volta ad erogare finanziamenti a tassi di usura ai clienti, con dilazione dei pagamenti garantita dall’emissione di titoli di credito post-datati, da parte di partecipe ad una associazione per delinquere di stampo mafioso).

 

Cassazione penale, Sez. V, 11 agosto 2021, n. 31507 

In tema di abuso di informazioni privilegiate, la Suprema Corte chiarisce che l’art. 184, comma 1°, lett. a), D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 «non punisce chi disponga di una mera posizione privilegiata derivante dalla possibilità di meglio leggere, valorizzare, interpretare informazioni, ivi incluse quelle di pubblico dominio, delle quali disponga, ma colui che, come nel caso di specie, essendo a conoscenza, in ragione delle qualità soggettive indicate dal legislatore, di eventi price sensitive […], sfrutti siffatta conoscenza per operare in condizioni di disparità con gli altri investitori, finendo per danneggiare un valore (la fiducia nella trasparenza dei mercati), che mira ad incentivare e a non scoraggiare l’afflusso e la circolazione dei capitali nell’interesse degli stessi imprenditori interessati al loro utilizzo per iniziative produttive». Nel caso di specie, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza di condanna dei tre imputati per il reato di abuso di informazioni privilegiate di cui al citato art. 184, comma 1°, lett. a), per avere essi realizzato un illecito profitto mediante l’acquisto delle azioni di una società in relazione alla quale erano in possesso, in virtù degli incarichi ricoperti, di un’informazione privilegiata consistente nel progetto di OPA funzionale al delisting della società medesima. Gli imputati propongono ricorso per Cassazione contestando, tra gli altri motivi, la rilevanza penale della condotta di compiere operazioni su titoli da parte di soggetti a conoscenza della propria decisione di realizzare, in relazione ai titoli stessi, una futura operazione price sensitive (cd. insider di sé stesso). Secondo la ricostruzione dei ricorrenti, questa soluzione interpretativa si porrebbe infatti in contrasto con la lettera dell’art. 184 T.U.F. Tale norma, attribuendo rilevanza alla “informazione”, non si riferirebbe soltanto al contenuto di questa, bensì, soprattutto, «all’elemento che obiettivizza la rappresentazione», nonché al possesso della stessa, il quale ne presupporrebbe necessariamente l’altruità. I ricorrenti sostengono inoltre che quando è l’agente ad avere generato la notizia non ricorrerebbe mai il rapporto causale – elemento costitutivo della fattispecie – tra la qualità dell’insider primario e il possesso dell’informazione, in quanto in tal caso «la causa del conoscere dipende dall’agire o dal pensare e non dall’appartenenza alle categorie soggettivamente enucleate dalla legge e dal collegato contatto comunicativo». La Suprema Corte giudica infondato il motivo di ricorso evidenziando preliminarmente che l’informazione consiste in un «insieme di dati descrittivi della realtà» e che, se è vero che tale termine può anche indicare l’attività di raccolta e trasmissione delle informazioni, questa seconda componente “dinamica” non può escludere la “componente statica” della nozione. La Corte richiama al riguardo una serie di norme penali rispetto alle quali risulta infatti evidente che il legislatore utilizza il termine “informazione” sia per indicare la comunicazione sia per fare riferimento al dato di conoscenza, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo sia «rappresentativo di una realtà prodotta dal medesimo soggetto obbligato». Quanto alla tesi della mancata integrazione del suddetto elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice nel caso in cui sia il soggetto stesso a generare l’oggetto-notizia, in quanto la causa del conoscere non dipenderebbe il tal caso dall’appartenenza alle categorie soggettive indicate dal legislatore, la S.C. chiarisce innanzitutto che la previsione della rilevanza del «possesso di informazioni “in ragione” di determinati ruoli, partecipazioni o attività, ai sensi dell’art. 184, comma 1, t.u.f. non orienta in alcun modo l’interprete verso una alterità tra fonte produttiva del fatto conosciuto e soggetto titolare dell’informazione». I giudici di legittimità fanno dunque riferimento alla finalità perseguita dalla normativa Eurounitaria e dal legislatore interno, consistente nel «garantire l’integrità dei mercati finanziari dell’Unione e di accrescere la fiducia degli investitori in tali mercati, assicurando che questi ultimi siano posti su un piano di parità e tutelati contro l’utilizzazione illecita delle informazioni privilegiate e le manipolazioni dei prezzi di mercato». Al riguardo, la Cassazione afferma la necessità di distinguere il caso in cui la condotta rappresenta «la mera attuazione di una decisione economica dell’operatore», con riferimento al quale pare ragionevole escludere la configurabilità di un abuso di informazioni privilegiate, da quello in esame, rispetto al quale non emerge il mero sfruttamento di una decisione interna, bensì «una condotta che, rispetto ad un progetto ormai ragionevolmente prevedibile come destinato ad essere attuato, mira ad alterare la condizione di parità degli investitori, consentendo di conseguire prezzi di acquisto non altrimenti più ottenibili».

 

Cassazione Penale, Sez. V, 16 gennaio 2019, n. 1991 

La Suprema Corte, con la pronuncia in esame, respinge il ricorso presentato dall’ex amministratore delegato di una banca, contro il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni immobili, mobili registrati e mobili, fino alla concorrenza della somma di euro 45.425.000, disposto nei suoi confronti dal Tribunale di Treviso. In particolare, viene rigettata dalla Cassazione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641, comma 2, c.c. laddove sottopone alla confisca per equivalente i beni utilizzati per commettere il reato, in relazione all’art. 2638 c.c., rubricato “ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza”. La questione di legittimità costituzionale di tale ultima norma, secondo i giudici di legittimità, “deve essere vagliata alla luce delle condotte contestate all’indagato perché solo in relazione al singolo precetto che si assume essere stato violato, possono trovare adeguato fondamento o sicura smentita i dubbi circa la sproporzione della sanzione complessiva nel caso in cui si provveda alla confisca per equivalente dei mezzi utilizzati per commettere il reato”. Nel caso di specie, i capi di imputazione ascritti all'ex a.d. sono riconducibili ad una serie di condotte di ostacolo all’esercizio delle funzioni vigilanza di CONSOB e Banca d’Italia, commesse in qualità di amministratore delegato del predetto istituto di credito, comunicando un patrimonio di vigilanza non corrispondente al vero, poiché non decurtato del valore di una pluralità di operazioni che l’indagato aveva posto in essere, per il tramite di enti e persone fisiche, con l’impegno da parte della banca di riacquisto degli strumenti finanziari ceduti, per un valore complessivo che corrisponde nell’ammontare alla somma vincolata, per equivalente. È, pertanto, evidente che il disvalore, di rilievo penale, di tali condotte trovi la sua più corretta quantificazione proprio nella misura complessiva delle somme in esse impiegate: ne consegue che “non vi è alcuna sproporzione fra i fatti illeciti compiuti e le somme sottoposte al vincolo, che, anzi, sotto il profilo monetario, coincidono perfettamente”. Gli ermellini confutano, altresì, l’argomentazione addotta nel ricorso a sostegno dei dubbi di costituzionalità della misura adottata e fondata dall’intervenuta modifica dell’art. 187-sexies del D.Lgs. n. 58/1998 (TUF), ad opera dell’art. 4 del D.Lgs. n. 107/2018, che ha escluso la possibilità di procedere alla confisca dei beni utilizzati per commettere l’illecito amministrativo, limitando la misura al prodotto o al profitto dell’illecito. Quest’ultima risposta sanzionatoria del legislatore concerne i soli illeciti amministrativi contemplati dal TUF e lascia invariata, invece, la disciplina sanzionatoria riguardante le condotte di rilievo penale, come testimoniato dalla circostanza per cui non è stata disposta analoga modifica all’art. 187 TUF, che ad oggi consente la confisca, diretta e per equivalente, dei beni strumentali alla consumazione dei delitti di insider trading e aggiotaggio.

 

Cassazione Penale, Sez. V, 30 settembre 2019, n. 39999

Mediante la sentenza de qua la Corte di Cassazione si è pronunciata su numerose questioni relative al reato di insider trading, anche a seguito del recepimento nell’ordinamento interno del Regolamento UE n. 596/2014 (“Market Abuse Regulation” – MAR). In particolare, l’articolata pronuncia della Suprema Corte si concentra su due principali profili: da un lato, fornisce importanti chiarimenti interpretativi sugli elementi costitutivi della fattispecie; dall’altro, assume una posizione innovativa in relazione alla controversa questione del doppio binario sanzionatorio – di carattere penale e amministrativo – nei reati di market abuse. Con riguardo al primo profilo, la Corte ha tracciato un approfondito quadro interpretativo del reato di abuso di informazioni privilegiate come risultante dal recepimento del MAR. La sentenza chiarisce infatti numerosi elementi della fattispecie, quali: (i) l’estensione della nozione di «informazione privilegiata»; (ii) la condotta rilevante; (iii) la natura del reato; (iv) la distinzione tra la qualifica di insider primario e secondario. Così, la Corte ha innanzitutto statuito che, anche a seguito del recepimento del MAR, la nozione di informazione privilegiata si riferisce non solo all’evento già venuto ad esistenza come oggetto dell’informazione abusata, ma anche all’ipotesi di “informazione intermedia privilegiata”, ossia di quella informazione che sia “direttamente riferibile ad una fase di prognosi in cui la precisione dell’informazione si ricollega (anche) a circostanze o ad eventi che si possono ragionevolmente prevedere che verranno ad esistenza”. In altri termini, ad avviso della Corte “la comunicazione di informazioni privilegiate è punibile, cioè, con riferimento ad eventi accaduti o a circostanze che siano in atto «esistenti», oppure in relazione a circostanze od eventi ragionevolmente prevedibili nel futuro, rimanendo esclusa solo quando ha ad oggetto un complesso di circostanze inesistenti, falsamente date come attuali, poiché in tal caso la fattispecie concreta esula dal modello descrittivo tracciato dalla norma”.

In secondo luogo, la Suprema Corte ha chiarito che l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 184 T.U.F. “configura un tipico reato di pericolo e di mera condotta, che realizza una tutela anticipata dei beni giuridici protetti (la stabilità e la trasparenza dei mercati nonché, ovviamente, la tutela degli investitori), a prescindere dal danno arrecato e, dunque, del vantaggio conseguito dall’insider”. Tale fattispecie punisce infatti “l’utilizzazione dell’informazione privilegiata da parte del suo possessore per compiere investimenti (acquisto, vendita o altre operazioni su strumenti finanziari), giocando sulla sua conoscenza delle dinamiche finanziarie che stanno per coinvolgere l’ente ed il suo patrimonio azionario”; di contro, al fine di ritenere integrato il reato di insider trading la Corte ha ribadito come non sia necessaria la “elisione del margine di rischio nell’operazione su titoli (margine di rischio che sarebbe, invece, ‘tipico’ degli altri operatori ‘disinformati’)”.

Infine, con riferimento alla qualifica soggettiva di insider primario, la Corte ha evidenziato che “se è vero che non in ogni attività lavorativa prestata […] all’interno di una società di consulenza che operi per attività di due diligence potrebbe ravvisarsi quel rapporto qualificato richiesto dalla norma per fondare il formarsi di una conoscenza privilegiata ed individuare un ruolo di insider primario, tuttavia, è indubbio che tale ruolo possa essere riconosciuto in capo a colui il quale rivesta in una tale società una qualifica di spicco – come è quella di socio senior – e, per tale condizione, assuma una speciale autorevolezza e visibilità tra i colleghi, con conseguente capacità di divenire recettore e collettore delle vicende di singole attività di consulenza delle quali pure non partecipi direttamente”. Per ciò che concerne il duplice regime sanzionatorio – penale ed amministrativo – applicabile nei reati di market abuse, all’esito di un articolato percorso argomentativo sul tema del ne bis in idem, la Suprema Corte ha ritenuto che – seppur in via eccezionale – la sanzione penale per i reati di market abuse (e quindi anche di insider trading) possa essere disapplicata qualora la complessiva entità della sanzione amministrativa già inflitta sia idonea ad assorbire integralmente il disvalore della condotta e a offrire quindi piena tutela all’interesse protetto dell’integrità dei mercati finanziari e delle fiducia del pubblico negli strumenti finanziari. Nello specifico, la Corte di Cassazione ha espresso il principio di diritto secondo cui, anche in tema di insider trading e ne bis in idem, “la disapplicazione della disciplina penale potrà aver luogo soltanto nell’ipotesi in cui la sanzione amministrativa già inflitta in via definitiva sia strutturata in maniera e misura tali da assorbire completamente il disvalore della condotta, poiché in tal caso il cumulo delle sanzioni risulta radicalmente sproporzionato e contrario ai principi sanciti dagli artt. 50 CDFUE e 4 Prot. n. 7 CEDU, come interpretati dalle Corti europee”.

 

Cassazione Penale, Sez. V, 22 marzo 2019, n. 12777 

Le operazioni di finanziamento in pool effettuate da un istituto di credito italiano con la diretta partecipazione di un istituto di credito estero non autorizzato ad operare nel territorio nazionale integrano il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria di cui all’art. 132 TUB anche quando, sul piano giuridico, esse siano formalmente regolate da una convenzione interbancaria articolata secondo lo schema del mandato senza rappresentanza. È quanto stabilito dalla sentenza n. 12777 del 22 marzo 2019, con la quale la Quinta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità della sentenza di condanna per esercizio abusivo di attività finanziaria ex art. 132 TUB, emessa dalla Corte d’appello di Bologna nei confronti di alcuni amministratori di due istituti di credito coinvolti in una serie di complesse operazioni finanziarie che vedevano la banca italiana capofila erogare finanziamenti ai propri correntisti utilizzando risorse fornite da una banca estera, non autorizzata all’esercizio di tale attività, sulla base di un mandato senza rappresentanza. Secondo la Suprema Corte, il formale conferimento ad un istituto di credito italiano di un mandato senza rappresentanza non esclude la riconducibilità dell’attività finanziaria posta in essere dalla banca mandataria anche alla banca mandante priva di autorizzazione. Infatti, nell’interpretazione della fattispecie incriminatrice, la valutazione dell’operazione concretamente posta in essere e la sua corrispondenza alla fattispecie di reato contestata devono necessariamente prevalere sulla qualificazione giuridica di tale operazione ad opera degli agenti, ossia sulla forma negoziale adottata per il suo svolgimento. Del resto, come già osservato dai giudici del gravame, «attribuire rilevanza esclusiva ed assorbente alla forma giuridica adottata consentirebbe una agevole e sistematica elusione dell’intera disciplina che regola l’attività delle banche extracomunitarie, consentendo di erogare credito senza autorizzazione sol conferendo un mandato senza rappresentanza ad un istituto bancario italiano». Pertanto, in presenza di inequivoci indici sintomatici – su tutti, il riparto del rischio di insolvenza tra i due istituti, la sottoscrizione per conoscenza della convenzione interbancaria da parte di ciascun mutuatario, l’autonoma valutazione del merito creditizio dei mutuatari formulata dalla banca mandante e il potere di ingerenza di quest’ultima nella fase di esecuzione del rapporto – il mandato senza rappresentanza deve ritenersi diretto a dissimulare lo svolgimento diretto di attività finanziaria (nella specie: concessione pro quota di finanziamenti al pubblico ex art. 106 TUB) da parte di un soggetto non autorizzato e, dunque, ad eludere il divieto di operatività finanziaria in assenza di autorizzazione sancito dal testo unico bancario.

 

Cassazione Penale, Sez. II, 15 giugno 2018, n. 39069 

Il caso preso in esame dalla Corte di Cassazione riguarda il reato di truffa in danno dell’istituto bancario, consistente nell’induzione in errore della responsabile di filiale di banca mediante artifizi e raggiri, al fine di ottenere l’apertura di un conto corrente. In primo luogo, la Suprema Corte affronta il tema dell’individuazione della persona offesa cui compete il diritto di querela. La Corte ribadisce il principio per cui deve intendersi tale il soggetto passivo del reato, ossia colui che subisce la lesione dell’interesse penalmente protetto, e possono coesistere più soggetti passivi di un medesimo reato, che vanno individuati con riferimento alla titolarità, appunto, del bene giuridico protetto. Conformandosi alla richiamata sentenza delle Sezioni Unite, n. 40354 del 18 luglio 2013, i Giudici confermano come nei reati contro il patrimonio il bene giuridico protetto vada individuato anche nel possesso inteso come relazione di fatto con la cosa. In tema di truffa, dunque, la responsabile della filiale di banca, la quale si sia personalmente occupata della transazione, debba considerarsi persona offesa e titolare in proprio di un autonomo diritto di querela in quanto responsabile, in quel frangente, delle attività dell’istituto bancario e delle eventuali conseguenze pregiudizievoli per l’interesse dell’ente da lei rappresentato. In secondo luogo, La Suprema Corte esamina il tema del danno patrimoniale: in tema di truffa contrattuale, questo non è necessariamente costituito dalla perdita economica di un bene subita dal soggetto passivo, ma può consistere anche nel mancato acquisto di un’utilità economica che quest’ultimo si riprometta di conseguire in conformità alle false prospettazioni dell’agente dal quale sia tratto in errore. La Corte ribadisce l’orientamento per cui l’ottenimento con generalità false dell’apertura di un conto corrente bancario può costituire ingiusto profitto con correlativo danno della banca costituito dalla sostanziale assenza della benché minima garanzia di affidabilità del correntista, atteso che la disponibilità di un conto corrente bancario dà la possibilità di emettere assegni oltre che di fruire di tutti gli altri servizi connessi all’esistenza del rapporto in questione.

 

Cassazione Pen. sez. V, sentenza n. 21927 del 17 maggio 2018

Commette il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria di cui all'art. 132 d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385, chi pone in essere le condotte di finanziamento previste dall'art. 106 del medesimo d.lgs. inserendosi nel libero mercato e sottraendosi ai controlli di legge, purché l'attività, anche se in concreto realizzata per una cerchia ristretta di destinatari, sia rivolta ad un numero potenzialmente illimitato di soggetti e sia svolta professionalmente, ovvero in modo continuativo e non occasionale, non essendo invece necessario il perseguimento di uno scopo di lucro o, comunque, di un obiettivo di economicità.

 

Cassazione Civile, Sez. I, 6 aprile 2018, n. 8590 

Nell’illecito di abuso di informazioni privilegiate lo strumento finanziario non costituisce solo lo strumento operativo per commettere l’illecito, ma anche il profitto stesso dell’illecito, senza che sia più possibile distinguere il valore legittimo iniziale da quello artificioso finale per effetto dell’illecita negoziazione. Ne consegue che l’oggetto della confisca disposta ex art. 187-sexies T.U.F. è il prodotto della condotta illecita, ossia lo strumento finanziario stesso che, per effetto della violazione, ha mutato artificialmente il proprio valore. Nel caso in esame una società aveva acquistato oltre un milione di azioni di una banca in esecuzione di disposizioni dettate dal proprio amministratore, il quale era in possesso di informazioni privilegiate. Previo accertamento dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate, la Consob ha condannato la società acquirente e il suo amministratore al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di quasi due milioni di euro e ha disposto la confisca dei titoli per il controvalore di oltre 20 milioni di euro. L’amministratore e la società hanno inizialmente impugnato la deliberazione in questione avanti alla Corte d’Appello competente, che ha respinto l’opposizione, e, successivamente, hanno proposto ricorso per Cassazione. Uno dei motivi del ricorso si basava sulla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 187-sexies T.U.F. I ricorrenti avevano infatti dedotto l’erroneità della sentenza della Corte di merito per aver ritenuto la confisca dei titoli obbligatoria per un controvalore equivalente non solo al profitto ma anche al valore originario di acquisto delle azioni, evidenziando la necessità di evitare duplicazioni di sanzioni. La Corte ha respinto detto motivo di ricorso eccependo l’infondatezza dello stesso. La misura di confisca di cui all’art. 187-sexies T.U.F., infatti, è obbligatoria e i titoli utilizzati per realizzare l’illecito di abuso di informazioni privilegiate non costituiscono semplicemente lo strumento operativo utilizzato dal trasgressore al fine di commettere l’illecito, ma anche il profitto stesso dell’illecito. Ne consegue che, non essendo possibile distinguere il valore legittimo iniziale dei titoli da quello artificioso finale per effetto dell’illecita negoziazione, il prodotto della condotta illecita, oggetto della confisca, si identifica con lo strumento stesso che, per effetto della violazione, ha mutato artificialmente il proprio valore.

 

Sequestri antimafia

Cass., Sez. un., sent. 26 maggio 2022 (dep. 17 novembre 2022), n. 43668 – Revocazione della confisca

Ancora una volta le Sezioni unite della Corte di cassazione sono state chiamate a fare luce sulla disciplina della revocazione della confisca di prevenzione, mezzo straordinario di impugnazione disciplinato dall’art. 28 d.lgs. n. 159/2011 (c.d. codice antimafia). Tra i casi in cui tale disposizione ammette la revocazione delle decisioni definitive sulla confisca vi è anche quello della «scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento». 

La Corte accoglie l’orientamento giurisprudenziale restrittivo. In particolare, secondo il principio di diritto affermato, «la prova nuova, rilevante ai fini della revocazione della misura ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è sia quella sopravvenuta alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di esso, sia quella preesistente ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva; non lo è, invece, quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore».

 

Cass. Penale 20 ottobre 2023. In caso di restituzione i frutti seguono la sorte dei beni in confisca

La Suprema Corte, annullando con nuovo rinvio al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ha ribadito con una recente sentenza del 20 ottobre 2023 ( Penale Sent. Sez. 1 Num. 44396)  che la restituzione, anche parziale,   dei  beni  già  sottoposti   a  sequestro   e  confisca  di  prevenzione,   deve essere  disposta   ed  eseguita  considerando   la  consistenza   attuale   degli  stessi, comprensiva   degli  eventuali   incrementi   di  natura  economica  derivanti   dal  loro impiego,  detratte   esclusivamente le spese di gestione  diverse  da quelle  relative al   pagamento    dei   compensi    e   dei   rimborsi    in   favore   dell'amministratore giudiziario  e del coadiutore  da lui  nominato. 

 

Sequestri e confische per violazioni 231/01

Cassazione penale sez. II, 10/07/2018, n.34293

Responsabilità dell’ente: sequestro preventivo a fini di confisca e sequestro impeditivo.

In tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma 1 dell’articolo 321 del Cpp, non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilità di natura logico-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive (vuoi per la temporaneità della misura interdittiva, laddove il sequestro è tendenzialmente definitivo ove, all’esito del giudizio di cognizione, sia disposta la confisca; vuoi perché, comunque, sotto il profilo degli effetti, mentre la misura interdittiva “paralizza” l’uso del bene “criminogeno” solo in modo indiretto, al contrario, il sequestro e la successiva confisca colpiscono direttamente il bene, eliminando, quindi, per sempre, il pericolo che possa essere destinato a commettere altri reati). È pur vero, infatti, che l’articolo 53 del Dlgs 8 giugno 2001 n. 231 prevede testualmente che, nei confronti degli enti, si possa applicare il solo sequestro preventivo (del prezzo o del profitto del reato) a fini di confisca di cui all’articolo 321, comma 2, del Cpp, non essendo espressamente previsto il sequestro preventivo di cui al comma 1 dell’articolo 321 del codice di procedura penale, ma tale sequestro “impeditivo” deve ritenersi ammissibile anche nei confronti dell’ente, in base a una interpretazione costituzionalmente orientata che trova fondamento nell’amplissimo disposto dell’articolo 34 del decreto legislativo n. 231 del 2001, a norma del quale “per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano […] in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”, e si giustifica con il fatto che, diversamente, si teorizzerebbe per l’ente un regime privilegiato rispetto a quello generale previsto dal codice di rito, privando la collettività di un formidabile e agile strumento di tutela finalizzato a eliminare dalla circolazione beni criminogeni (nella specie, quindi, la Corte, ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo di alcuni impianti fotovoltaici disposto ex articolo 321, comma 1, del codice di procedura penale nei confronti di un ente chiamato a rispondere dell’illecito amministrativo di cui all’articolo 24 del decreto legislativo n. 231 del 2001, in relazione all’articolo 640-bis del codice penale).

 

Cassazione penale sez. VI, 26/04/2018, n.22843

I provvedimenti del giudice in ordine ai poteri dell’amministratore giudiziario non sono autonomamente impugnabili

In tema di sequestro preventivo, i provvedimenti del giudice in ordine ai poteri e all’operato dell’amministratore giudiziario, non attenendo all’applicazione o alla modifica del vincolo cautelare, ma alle modalità esecutive ed attuative della misura, non sono autonomamente impugnabili, essendo consentita la sola opposizione dinanzi al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666, comma 4, c.p.p. (Fattispecie in cui la Corte ha convertito in opposizione dinanzi al giudice dell’esecuzione il ricorso in cassazione proposto avverso il rigetto della richiesta di liquidazione del compenso professionale avanzata dal componente dell’organismo di vigilanza nominato, ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.lg. n. 231 del 2001, dall’amministratore giudiziario della società i cui beni erano stati sottoposti a sequestro).

 

Cassazione penale sez. II, 28/03/2018, n.23896

Profitto confiscabile e profitto non confiscabile

Sussiste l’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito (profitto non confiscabile) e il vantaggio economico deve essere concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente.

Cassazione penale sez. VI, 25/01/2018, n.33044

Autonomia dell’illecito da reato dell’ente: l’autore del reato non può proporre riesame avverso il provvedimento del sequestro preventivo disposto nei confronti dell’ente.

In tema di responsabilità da reato degli enti, la persona fisica, indagata del reato presupposto, non è legittimata a proporre riesame avverso il provvedimento di sequestro preventivo disposto esclusivamente nei confronti della persona giuridica, ai sensi del d.lg. 8 giugno 2001, n. 231. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’illecito da reato dell’ente, pur presupponendo l’avvenuta commissione di un reato, mantiene la propria autonomia strutturale, sicchè l’autore del reato non può considerarsi quale coimputato della persona giuridica. Cfr. Corte Cost. n. 218 del 2014).

Cassazione penale sez. V, 10/11/2017, n.2308

Il giudice deve dar conto del periculum in mora che giustifica il sequestro preventivo funzionale alla confisca facoltativa.

Nell’ipotesi di sequestro preventivo ex art. 321, comma2, c.p.p., finalizzato alla confisca “facoltativa”, il giudice deve dare conto del “periculum in mora” che giustifica l’apposizione del vincolo, dovendosi escludere qualsiasi automatismo che colleghi la pericolosità alla mera confiscabilità del bene oggetto di sequestro.

Cassazione penale sez. III, 09/11/2017, n.6742

Sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente: la ratio della nomina dell’amministratore giudiziario è quella di evitare la paralisi dell’attività aziendale.

In caso di sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca di beni di una società nei cui confronti pende un procedimento per responsabilità amministrativa nascente da reato, disposto ai sensi del comma 2 dell’articolo 19 del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, qualora il provvedimento cautelare abbia a oggetto “società, aziende, ovvero beni, ivi compresi titoli, nonché quote azionarie o liquidità anche in deposito”, il comma 1-bis dell’articolo 53 dello stesso decreto legislativo prevede che sia il “custode amministratore giudiziario” a consentirne l’utilizzo e la gestione agli organi societari, “esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, esercitando poteri di vigilanza e riferendone all’autorità giudiziaria”. La ratio della disposizione è quella di evitare che la disposta misura cautelare possa paralizzare l’ordinaria attività aziendale pregiudicandone la continuità e lo sviluppo e la funzione assegnata al custode amministratore giudiziario, in questa prospettiva, è quella di vigilare sull’utilizzo e sulla gestione dell’azienda e di riferirne all’autorità giudiziaria: da ciò deriva anche che la nomina dell’amministratore è a tal punto presupposto imprescindibile per l’attività aziendale che, nel caso sia stata omessa, la parte interessata ha un “onere di impulso” di adire il giudice che procede, ai sensi dell’articolo 47 del decreto legislativo n. 231 del 2001.

Cassazione penale sez. VI, 14/07/2015, n.33226

Sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente: il profitto del reato si identifica solo con il vantaggio economico di diretta derivazione causale dal reato presupposto.

In tema di responsabilità da reato degli enti, il profitto del reato si identifica solo con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto e non anche con i vantaggi indiretti derivanti dall’illecito. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto viziato il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente avente ad oggetto somme di denaro considerate profitto derivante dal reato di corruzione e quantificate facendo riferimento non già al vantaggio consistito nella realizzazione di un impianto di energia alternativa illecitamente autorizzato per effetto dell’accordo corruttivo, ma alle somme liquidate alla società a seguito della erogazione di energia elettrica in base alla convenzione successivamente stipulata con l’ente gestore. (Conf. sent. n. 33227 del 2015 non massimata).

 

Reati in materia di diritto del lavoro

Cassazione penale n. 17641 del 28 aprile 2023

In tema di caporalato e confisca obbligatoria, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che a differenza della confisca facoltativa ex art. 240, comma 1, c.p. di natura prevalentemente cautelare, la confisca ex art. 603-bis c.p. possiede una natura prevalentemente sanzionatoria ed ha per oggetto non soltanto le cose che furono destinate per commettere il reato, ma anche quelle che servirono occasionalmente a questo fine.

 

Cassazione penale , sez. IV , 09/11/2022 , n. 44557

In tema di responsabilità da infortuni sul lavoro, ai sensi dell' art. 88, comma 2, lett. g-bis) d.lg. 9 aprile 2008 n. 81 , la disciplina relativa ai cantieri temporanei o mobili trova applicazione ai lavori relativi a impianti elettrici, reti informatiche, gas, acqua, condizionamento e riscaldamento, solo nel caso in cui nel medesimo cantiere non siano realizzati anche lavori di edilizia o di ingegneria civile, in ragione del rischio d'interferenza tra gli stessi. (Fattispecie relativa alle lesioni colpose riportate da lavoratore, a seguito di caduta cagionata dal cedimento del pavimento, nel corso della esecuzione di lavori di realizzazione dell'impianto di condizionamento di una palazzina oggetto di generali lavori di ristrutturazione edilizia).

 

Cassazione penale , sez. IV , 22/09/2022 , n. 44654

In tema di infortuni sul lavoro, il cantiere temporaneo o mobile, destinato allo svolgimento di ogni attività preparatoria alle lavorazioni tipiche, costituisce luogo di lavoro rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di attuare le misure antinfortunistiche. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto immune da censure l'affermazione di responsabilità per omicidio colposo del datore di lavoro di un operaio, in seguito alla caduta nel corso delle operazioni preliminari di verifica dell'idoneità di un carrello elevatore per l'esecuzione di lavori edili in altezza).

 

Cassazione penale , sez. IV , 26/05/2022 , n. 31478

In tema di infortuni sul lavoro, non è configurabile la responsabilità del datore di lavoro nel caso in cui l'incidente sia avvenuto sì in occasione dello svolgimento di un'attività lavorativa ma non con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, ponendosi il rischio fuori della sfera di gestione del datore di lavoro. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato senza rinvio la decisione di affermazione di responsabilità del titolare di un'azienda per la raccolta di rifiuti urbani in relazione all'investimento di un pedone avvenuto durante la manovra di retromarcia di un mezzo per la raccolta dei rifiuti, omologato mono-operatore e dotato di strumentazione funzionante, ma inidoneo ad assicurare la visuale della zona retrostante).

 

Cassazione penale , sez. IV , 16/02/2022 , n. 32233

In tema di infortuni sul lavoro, la previsione dell' art. 92 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , relativa agli obblighi del coordinatore per l'esecuzione dei lavori, si applica anche in caso di infortunio avvenuto nel corso di lavori subacquei di rimozione di un relitto, trattandosi di operazioni non ricomprese nella clausola di esclusione di cui all' art. 88, lett. f) , d.lgs. citato.

 

Cassazione penale , sez. IV , 23/11/2021 , n. 2157

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la previsione dell' art. 299 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , elevando a garante colui che di fatto assume ed esercita i poteri del datore di lavoro, amplia il novero dei soggetti investiti della posizione di garanzia, senza tuttavia escludere, in assenza di delega dei poteri relativi agli obblighi prevenzionistici in favore di un soggetto specifico, la responsabilità del datore di lavoro, che di tali poteri è investito ex lege e che, nelle società di capitali, si identifica nella totalità dei componenti del consiglio di amministrazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la decisione che, in assenza di delega di poteri, aveva riconosciuto la qualifica di datore di lavoro al presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, nonostante si occupasse della prevenzione un altro componente del consiglio di amministrazione).

 

Cassazione penale , sez. IV , 23/11/2021 , n. 5128

In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, per lavoro in quota, ai sensi dell' art. 122 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , deve intendersi ogni attività che si svolga ad oltre due metri da un piano stabile, pur se il lavoratore operi su superfici piane e contenute da parapetti, ogniqualvolta sussista il rischio di caduta per la conformazione della struttura o di una sua parte.

 

Cassazione penale , sez. IV , 16/11/2021 , n. 5409

In caso di omicidio colposo da infortunio sul lavoro derivante da attività di taglio di un bosco, la proprietaria è titolare di una posizione di garanzia, quale committente dell'appalto, idonea a fondare la sua responsabilità per l'infortunio occorso e derivante dalla scelta della ditta incaricata dei lavori. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che, qualificando come appalto - e non come vendita di cosa futura - il contratto avente ad oggetto la cessione, previo taglio, degli alberi da legna, ha affermato la responsabilità della proprietaria del terreno per la morte di uno degli operai addetti al taglio, in quanto ha ravvisato la culpa in eligendo per avere affidato l'esecuzione dei lavori di appalto a una ditta priva dei requisiti di sicurezza richiesti dalla normativa di settore).

 

Cassazione penale , sez. IV , 11/11/2021 , n. 7093

In tema di sicurezza sul luogo di lavoro e di prevenzione degli infortuni, sono equiparati ai lavoratori subordinati ex art. 2, comma 1, d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , coloro che svolgono attività lavorative nell'ambito di tirocini formativi e di orientamento previsti dall' art. 18 l. 24 giugno 1997, n. 196 , verso i quali l'ospitante è tenuto ad osservare tutti gli obblighi atti a garantire le corrette condizioni di sicurezza e igiene sul lavoro. (Nella specie, la Corte ha ritenuto immune da censure l'affermazione di responsabilità del titolare di un'azienda per le lesioni occorse a una studentessa in tirocinio in virtù di convenzione stipulata con un ente universitario).

 

Cassazione penale , sez. IV , 27/10/2021 , n. 41147

In tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l'evento dannoso sia provocato dall'inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale grava l'obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare tale macchina e di adottare tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori; a detta regola può farsi eccezione nella sola ipotesi in cui l'accertamento di un elemento di pericolo sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio di progettazione, che non consentano di apprezzarne la sussistenza con l'ordinaria diligenza. (Fattispecie relativa a macchinario denominato «linea di spianatura e taglio trasversale bandellatrice», acquistato dieci anni prima dell'infortunio e dotato di marchio CE nonché di un meccanismo di segregazione delle parti mobili pericolose, agevolmente apribile, ma privo di un sistema di blocco automatico delle parti in movimento, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro in relazione alle lesioni occorse a un lavoratore mentre lo stava ripulendo, per non avere adeguato gli standard di sicurezza alla luce dei progressi della tecnologia e non avere installato meccanismi di blocco automatico).

 

 

Cassazione penale , sez. IV , 05/10/2021 , n. 43350

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la redazione del documento di valutazione dei rischi e l'adozione di misure di prevenzione non escludono la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell'analisi dei rischi o nell'identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione.

 

Cassazione penale , sez. IV , 05/10/2021 , n. 38623

In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, le norme, di cui al d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , che presuppongono necessariamente l'esistenza di un rapporto di lavoro, come quelle concernenti l'informazione e la formazione dei lavoratori, si applicano anche in caso di insussistenza di un formale contratto di assunzione. (Fattispecie in tema di lesioni personali gravissime riportate sul luogo di lavoro da un lavoratore, stabilmente incardinato tra i lavoratori dell'azienda, ma privo di formale contratto di lavoro subordinato).

 

Cassazione penale , sez. IV , 22/09/2021 , n. 36153

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori macchinari provvisti di blocco automatico atto a impedire di entrare in contatto con le parti in movimento è configurabile anche in relazione alle attrezzature acquistate prima dell'entrata in vigore della Direttiva Macchine del 1996, in base al combinato disposto di cui agli artt. 70, comma 2, d.lgs 9 aprile 2008, n. 81 , e 6.3. dell'allegato V al predetto decreto legislativo, atteso che quest'ultima disposizione richiama testualmente quella enunciata dall'art. 72, d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, la quale costituisce applicazione del principio generale affermato dalla disposizione di cui all'art. 68 del medesimo testo normativo, che trova applicazione in tutti i casi in cui vengono usate macchine pericolose, e che non è stata superata dal d.P.R. 24 luglio 1996, n. 459.

 

Cassazione penale , sez. IV , 08/09/2021 , n. 39982

In tema di infortuni sul lavoro, con riferimento alle attività di approntamento e smantellamento di strutture di allestimento, tendostrutture o opere temporanee per manifestazioni fieristiche che presentino le caratteristiche di cui all'art. 6, comma 3, del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 22 luglio 2014, non sono applicabili le disposizioni del capo I del titolo IV del d.lg. n. 81 del 2008 , ma gravano comunque sul datore di lavoro gli ulteriori obblighi previsti, ai fini della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, dalle altre disposizioni del predetto decreto legislativo. (Fattispecie in tema di subappalto di lavori di costruzione di un padiglione fieristico, nella quale la Corte ha ritenuto non applicabili gli artt. 89 e 97 d.lg. n. 81 del 2008 , bensì, ricorrendone i presupposti, l' art. 26 del medesimo testo normativo).

 

Cassazione penale , sez. IV , 23/06/2021 , n. 25773

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, anche per i fatti verificatisi in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , nel caso di affidamento dei lavori ad un'unica ditta appaltatrice (c.d. cantiere sotto-soglia), il committente è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l'infortunio occorso al lavoratore, sia per la scelta dell'impresa, essendo tenuto agli obblighi di verifica imposti dall' art. 3, comma 8, d.lg. 14 agosto 1996, n. 494 , sia per l'omesso controllo dell'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

 

Cassazione penale sez. IV, 10/06/2021, n.24915

In tema di infortuni sul lavoro, la funzione di alta vigilanza che grava sul coordinatore per la sicurezza dei lavori – che si esplica prevalentemente mediante procedure e non poteri doveri di intervento immediato – riguarda la generale configurazione delle lavorazioni che comportino un rischio interferenziale, e non anche il puntuale controllo delle singole lavorazioni, demandato ad altre figure (datore di lavoro, dirigente, preposto), salvo l'obbligo di adeguare il piano di sicurezza in relazione all'evoluzione dei lavori e di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato ed immediatamente percettibile, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti da parte delle imprese interessate. (In applicazione del principio la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del coordinatore per la progettazione e per l'esecuzione dei lavori per il reato di omicidio colposo di un lavoratore travolto dal crollo di un solaio durante la sua demolizione, effettuata in contrasto con quanto progettato, senza spiegare perché tale lavorazione fosse riconducibile al rischio interferenziale e perché egli potesse e dovesse essere a conoscenza di tale demolizione).

 

Cassazione penale , sez. IV , 25/05/2021 , n. 24908

In tema di sicurezza dei lavoratori che devono eseguire lavori in quota, il datore di lavoro, ai sensi dell' art. 111, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 , è tenuto ad adottare misure di protezione collettiva in via prioritaria rispetto a misure di protezione individuale, in quanto le prime sono atte ad operare anche in caso di omesso utilizzo da parte del lavoratore del dispositivo individuale, con la conseguenza che l'omessa adozione delle seconde non è sufficiente a determinarne la responsabilità per l'infortunio occorso a un lavoratore, ove siano state adottate adeguate misure di protezione collettiva.

 

Cassazione penale , sez. III , 06/05/2021 , n. 29575

In tema di gestione della sicurezza degli edifici scolastici, grava sul sindaco pro tempore, in mancanza di formale attribuzione della competenza o di delega specifica ad un dirigente comunale, l'obbligo di richiedere ai vigili del fuoco il rilascio del certificato di prevenzione incendi, in quanto il legale rappresentante dell'ente è titolare di una posizione di garanzia a tutela della pubblica incolumità.

 

Cassazione penale , sez. IV , 21/04/2021 , n. 26335

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il committente privato non professionale che affidi in appalto lavori di manutenzione domestica, pur non essendo tenuto a conoscere, alla pari di quello professionale, le singole disposizioni tecniche previste dalla normativa prevenzionale, ha comunque l'onere di scegliere adeguatamente l'impresa, verificando che essa sia regolarmente iscritta alla C.C.I.A., che sia dotata del documento di valutazione dei rischi e che non sia destinataria di provvedimenti di sospensione o interdittivi ai sensi dell' art. 14, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 , altrimenti assumendo su di sé tutti gli obblighi in materia di sicurezza.

 

Cassazione penale , sez. IV , 21/04/2021 , n. 26335

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il committente, su cui gravano gli obblighi di sicurezza nell'esecuzione del contratto d'opera o d'appalto, è il soggetto che ha affidato i lavori, anche se diverso dal proprietario del bene che si avvantaggia delle opere affidate e anche in assenza di un mandato a contrarre o di una delega di funzioni ed in mancanza di un potere di spesa. (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto, in relazione all'infortunio occorso a un lavoratore durante la ristrutturazione di un'abitazione, la responsabilità del marito della proprietaria, in assenza di una delega da parte di quest'ultima).

 

Cassazione penale , sez. III , 16/03/2021 , n. 30034

Non contrasta con la preclusione connessa al principio del ne bis in idem  – in assenza di identità del fatto - né comporta violazione del principio di specialità - non sussistendo un rapporto di continenza tra norme - o del disposto dell' art. 84 c.p. - richiamando l' art. 589, comma 2, c.p. genericamente le norme in tema di prevenzione infortuni senza distinguere tra quelle prive di sanzione, quelle configuranti illeciti amministrativi e quelle di natura contravvenzionale - la condanna per contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro inflitta ad un soggetto già condannato per il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica.

 

Cassazione penale , sez. IV , 10/03/2021 , n. 24822

Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere ritenuto responsabile, anche in concorso con il datore di lavoro, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del RSPP per non avere segnalato nell'ultimo DVR il rischio di caduta nel vuoto per il cattivo stato di manutenzione dei parapetti di un balcone, in concorso con quella ascritta al datore di lavoro per non avere sollecitato la società proprietaria dell'immobile ad eseguire i necessari lavori di manutenzione, ritenendo irrilevante, ai fini dell'esclusione della responsabilità del primo, la circostanza che il rischio non segnalato fosse noto al datore di lavoro).

 

Cassazione penale , sez. IV , 03/03/2021 , n. 22256

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la designazione di un preposto al rispetto delle misure di prevenzione non esonera il datore di lavoro da responsabilità ove risulti l'inidoneità di una misura prevista nel documento di valutazione dei rischi. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la penale responsabilità del datore di lavoro per le lesioni che un suo dipendente, alla guida di un muletto, aveva cagionato ad altro lavoratore, in quanto, pur avendo nominato un preposto, non aveva organizzato i luoghi di lavoro in modo tale da garantire una viabilità sicura, regolamentando la circolazione con cartellonistica e segnaletica orizzontale).

 

Cassazione penale , sez. IV , 09/02/2021 , n. 21521

In tema di sicurezza del lavoro, il “medico competente” è un garante originario, titolare di una propria sfera di competenza, e il suo obbligo di collaborazione con il datore di lavoro comporta un'effettiva integrazione del sanitario nel contesto aziendale, con la conseguenza che egli non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un'attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del medico competente – per non avere previsto l'adozione di aghi protetti nel documento di valutazione rischi alla cui stesura era stato chiamato a collaborare – per le lesioni patite da un infermiere che aveva contratto un'epatite in quanto accidentalmente punto dall'ago mentre stava effettuando un prelievo da un paziente affetto da HCV ed HBV).

 

Cassazione penale , sez. IV , 09/02/2021 , n. 21517

In tema di infortuni sul lavoro, in caso di lavorazioni in quota, il datore di lavoro deve approntare un ponteggio al fine di prevenire il rischio di caduta di persone o cose, con la conseguenza che egli è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore caduto, anche qualora lo stesso si trovasse in quota per ragioni non inerenti lo svolgimento di tali lavorazioni. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per le lesioni da caduta occorse a due lavoratori, i quali si erano portati sulla sommità della struttura ove erano svolte delle lavorazioni, l'uno per riprendere la borsa degli attrezzi, e l'altro per verificare cosa stesse facendo il collega).

 

Cassazione penale , sez. IV , 29/01/2021 , n. 5802

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il rischio derivante dalla conformazione dell'ambiente di lavoro grava sul committente, perché, inerendo all'ambiente di lavoro, non è riconducibile alla natura specialistica dei lavori commissionati all'impresa appaltatrice. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del committente per il reato di lesioni colpose in relazione all'infortunio occorso a un lavoratore dipendente della ditta appaltatrice, addetto all'autobetoniera, investito da una scarica elettrica in quanto il braccio del mezzo, manovrato con radiocomando da altro lavoratore dipendente della stessa impresa, era stato alzato sino a giungere in prossimità di un elettrodotto sovrastante il cantiere di proprietà del committente).

 

Cassazione penale , sez. IV , 13/01/2021 , n. 4075

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro ha l'obbligo di adottare idonee misure di sicurezza anche in relazione a rischi non specificamente contemplati dal documento di valutazione dei rischi, così sopperendo all'omessa previsione anticipata. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna del datore di lavoro per le lesioni riportate da un lavoratore a seguito della precipitazione della cabina di un ascensore sulla quale stava lavorando, nonostante tale specifico pericolo di precipitazione non fosse contemplato nel DUVR).

 

Cassazione penale , sez. III , 12/01/2021 , n. 12940

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il contenuto qualificante e minimo del documento di valutazione dei rischi, previsto dall' art. 28 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , deve essere costituito, oltre che da una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, anche dall'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati.(Fattispecie, relativa ad un cantiere edile, di documento di valutazione dei rischi non ritenuto congruo perché, pur essendo stati individuati i pericoli dovuti alla movimentazione manuale dei carichi, con particolare riguardo agli arti superiori, era stata omessa la indicazione delle misure preventive da adottarsi nelle specifiche situazioni).

 

Cassazione penale , sez. IV , 08/01/2021 , n. 32899

In tema di requisiti generali di sicurezza delle attrezzature di lavoro, le misure di protezione appropriate che devono essere adottate, ai sensi del punto 3.2. dell'Allegato V al d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , in caso di rischio di spaccatura o rottura di elementi mobili di tali attrezzature, sono le misure che mirano a ridurre le conseguenze del concretizzarsi di tale rischio, e non quelle volte a eliminare o diminuire il rischio di verificazione del predetto evento, le quali sono invece riconducibili alla diversa nozione di misure di prevenzione.

 

Cassazione penale , sez. IV , 08/01/2021 , n. 32899

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il carro merci di un treno integra una macchina e, quindi, una attrezzatura di lavoro ai sensi dell' art. 69, d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , con la conseguenza che, essendo i mezzi di trasporto ferroviario esclusi dall'ambito di applicazione delle direttive comunitarie di prodotto, lo stesso deve essere conforme ai requisiti generali di sicurezza di cui all'allegato V, ai sensi dell'art. 70, comma 2, del medesimo testo normativo.

 

 

Cassazione penale , sez. IV , 08/01/2021 , n. 32899

I destinatari delle norme di cui agli artt. 2087 c.c. e 23 e  24 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , sono, rispettivamente, il datore di lavoro, coloro ai quali può imputarsi la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuale ed impianti, e gli installatori e i montatori di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, sicché, ai fini dell'integrazione della circostanza aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, occorre la loro violazione da parte di tali soggetti, ed eventualmente di altri in cooperazione colposa con i primi.

 

Cassazione penale , sez. IV , 17/12/2020 , n. 3917

In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, grava su ogni gestore del rischio, nell'alveo del suo compito fondamentale di vigilare sull'attuazione delle misure di sicurezza, l'obbligo di verificare la conformità dei macchinari alle prescrizioni di legge e di impedire l'utilizzazione di quelli che, per qualsiasi causa - inidoneità originaria o sopravvenuta -, siano pericolosi per la incolumità del lavoratore che li manovra. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto entrambi responsabili il direttore generale della società e il responsabile di stabilimento, dotati di specifiche deleghe in materia di sicurezza, per le lesioni di cui era rimasto vittima un lavoratore in conseguenza dell'uso di un macchinario privo dei necessari dispositivi di sicurezza).

 

Cassazione penale sez. IV, 10/12/2020, n.14179

In tema di infortuni sul lavoro, l'area di rischio governata dal coordinatore per la sicurezza nell'esecuzione dei lavori si individua in base all'area di intervento di tale garante, per come definita, ai sensi dell'allegato XV al d.lg. 9 aprile 2008, n. 81, dal piano di sicurezza e coordinamento, che comprende, oltre ai rischi connessi all'area di cantiere e all'organizzazione di cantiere, anche i rischi interferenziali connessi alle lavorazioni (cd. rischi generici), tra i quali non rientrano i rischi specifici propri dell'attività della singola impresa, di competenza del datore di lavoro, in quanto non inerenti all'interferenza fra le opere di più imprese. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro dell'impresa che stava eseguendo nel cantiere opere murarie, per le lesioni riportate – in conseguenza della caduta di un pannello durante il disarmo di quelli utilizzati per la realizzazione del cornicione del tetto – dal titolare di altra impresa che nel medesimo cantiere avrebbe dovuto eseguire le opere idrauliche, accompagnato dal primo in un'area sottostante al ponteggio al fine di valutare gli interventi di assistenza muraria da effettuare in relazione agli impianti idrici da realizzarsi).

 

Cassazione penale , sez. IV , 10/12/2020 , n. 10181

In tema di infortuni sul lavoro, i rischi connessi all'area e all'organizzazione del cantiere, in base ai punti 2.2.1. e 2.2.2. dell'allegato XV al d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , gravano sul coordinatore per la progettazione e sul coordinatore per l'esecuzione delle opere, competendo al primo la loro individuazione, analisi e valutazione nel piano di sicurezza e coordinamento, e, al secondo, l'organizzazione del cantiere. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva dichiarato l'imputato, nella duplice veste di coordinatore per la progettazione e l'esecuzione delle opere, responsabile del reato di lesioni colpose in relazione all'infortunio occorso ad un escavatorista, dipendente dell'impresa a cui erano state affidate le opere di sbancamento, che aveva manovrato una pala meccanica in zona non interessata dalle opere di scavo, sopra il tetto di una cisterna, che a causa del peso cedeva, facendo sprofondare il mezzo, per non avere predisposto percorsi per la circolazione dei mezzi che precludessero l'accesso alle zone pericolose).

 

Cassazione penale , sez. IV , 19/11/2020 , n. 2293

In tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per l'esecuzione dei lavori ha una funzione di alta vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni, e non anche il puntuale controllo delle singole attività lavorative, che è demandato alle figure operative del datore di lavoro, del dirigente e del preposto. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di condanna del coordinatore per l'esecuzione in relazione al decesso di un operaio avvenuto all'interno di un cantiere nel corso di lavori eseguiti clandestinamente a seguito della scadenza della concessione edilizia, non essendo provata la consapevolezza della intervenuta estemporanea ripresa dell'attività da parte dell'imputato).

 

Cassazione penale , sez. IV , 17/11/2020 , n. 4480

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa ad un'altra, il datore di lavoro distaccante, oltre all'obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato, ha il dovere di vigilare, per tutta la durata della lavorazione, anche sulla corretta funzionalità dei presidi, strumentali rispetto alla lavorazione, dei quali ha dotato il lavoratore. (In applicazione di tale principio la corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che aveva riconosciuto la responsabilità, tanto del distaccante quanto del distaccatario, per le lesioni subite dal lavoratore distaccato, caduto nel corso del montaggio di un palo a causa della scarsa efficienza di un moschettone fornito dal datore di lavoro distaccante).

 

Cassazione penale , sez. IV , 20/10/2020 , n. 10136

L'amministratore che stipuli un contratto di affidamento in appalto di lavori da eseguirsi nell'interesse del condominio può assumere, ove la delibera assembleare gli riconosca autonomia di azione e concreti poteri decisionali, la posizione di “committente”, come tale tenuto all'osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale della impresa appaltatrice, di informazione sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e di cooperazione e coordinamento nella attuazione delle misure di prevenzione e protezione. (Fattispecie relativa al decesso di una dipendente della ditta affidataria di lavori di pulizia all'interno di un condominio, nella quale la Corte ha annullato la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'amministratore quale “committente” dei lavori, omettendo di verificare se con la delibera assembleare gli fosse stato effettivamente conferito il potere di verificare l'idoneità tecnico-professionale della ditta e di effettuare una disamina del documento di valutazione dei rischi).

 

Cassazione penale , sez. IV , 15/10/2020 , n. 2845

In tema di infortuni sul lavoro, il compito di controllo del coordinatore della sicurezza per l'esecuzione dei lavori sull'idoneità del piano operativo di sicurezza (POS) che non preveda le modalità operative di una lavorazione in quota, non è limitato alla regolarità formale dello stesso e alla astratta fattibilità di tale lavorazione con i mezzi ivi indicati, ma si estende alla verifica della compatibilità di tale lavorazione con le concrete caratteristiche degli strumenti forniti e delle protezioni apprestate dall'impresa.(In applicazione del principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del coordinatore della sicurezza per il reato di lesioni colpose ai danni di un lavoratore caduto da un ponteggio nel corso della realizzazione della pavimentazione di un balcone privo di barriere protettive, per non avere sollecitato l'appaltatore alla messa a norma di tale ponteggio, pericoloso per carenze strutturali, eccessivo distanziamento dalla parete e carenza di interventi manutentivi).

 

Cassazione penale , sez. IV , 08/10/2020 , n. 1096

In caso di infortunio sul lavoro riconducibile a prassi comportamentali elusive delle disposizioni antinfortunistiche, non è ascrivibile alcun rimprovero colposo al preposto di fatto, sotto il profilo dell'esigibilità del comportamento dovuto, laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi o che le avesse colposamente ignorate, sconfinandosi altrimenti in una inammissibile ipotesi di responsabilità oggettiva da posizione. (In applicazione del principio la Corte ha annullato senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato, la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del capo reparto di un supermercato, preposto di fatto da soli cinque giorni, per l'infortunio subito da un dipendente a causa del mancato uso dei dispositivi di protezione).

 

Cassazione penale , sez. IV , 22/09/2020 , n. 28728

In materia di infortuni sul lavoro, in caso di lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto, sussiste la responsabilità del committente che, pur non ingerendosi nella esecuzione dei lavori, abbia omesso di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati, poiché l'obbligo di verifica di cui all'art. 90, lett. a), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, non può risolversi nel solo controllo dell'iscrizione dell'appaltatore nel registro delle imprese, che integra un adempimento di carattere amministrativo.

 

Cassazione penale , sez. III , 18/09/2020 , n. 30923

La disposizione di cui all'art. 18, comma 1, lett. g), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in base alla quale il datore di lavoro che esercita le attività di cui all'art. 3 dello stesso decreto e i dirigenti che organizzano e dirigono le stesse attività, secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono inviare i lavoratori a visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria, non è riferibile all'ipotesi di prestazioni occasionali destinate ad esaurirsi uno actu, posto che il richiamo alle predette scadenze logicamente implica che il rapporto sia caratterizzato da una certa durata del tempo in cui la prestazione lavorativa è svolta.

 

Cassazione penale , sez. IV , 16/09/2020 , n. 27242

In tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni, ai sensi dell' art. 2 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , i soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di datore di lavoro, riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell'unità produttiva, comprende anche il legale rappresentante di un'impresa cooperativa. 

 

Cassazione penale sez. IV, 16/09/2020, n.32178

In tema di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino, a danno del terzo, i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortunisullavoro, purché sussista, tra siffatta violazione e l'evento dannoso, un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la condanna di un lavoratore che, nello svolgimento di operazioni di scarico merci, in violazione dell'art. 20, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, aveva consentito che un terzo estraneo si intromettesse nello svolgimento della lavorazione riportando lesioni personali).

 

Cassazione penale , sez. III , 23/06/2020 , n. 23184

In tema di normativa antinfortunistica riguardante le costruzioni ed i lavori in quota, il reato di cui all' art. 159, comma 2, lett. a), d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , relativo alla mancanza delle condizioni di sicurezza di cui all' art. 122 del medesimo decreto, configura un reato di pericolo, sicché la valutazione in ordine all'offesa al bene giuridico protetto deve avvenire al momento della condotta secondo un giudizio prognostico ex ante, essendo irrilevante l'assenza in concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia lesione. (In motivazione, la Corte ha, altresì, ritenuto immune da censure la decisione di merito nella parte in cui aveva considerato ininfluente, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p. , l'adempimento tardivo alle prescrizioni imposte dall'organo amministrativo, in quanto post factum del tutto neutro rispetto al grado di offensività dell'illecito).

 

Cassazione penale , sez. III , 16/06/2020 , n. 27587

In tema di individuazione delle responsabilità penali all'interno di una struttura aziendale complessa operante nel settore alimentare, il mero rilascio di una delega di funzioni non è sufficiente per escludere la responsabilità del delegante in mancanza di elementi che depongano per l'effettiva competenza tecnica del delegato, per il positivo esercizio dei poteri conferiti, per l'autonomia dell'intervento e per l'adozione di modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire pericoli di contaminazione degli alimenti. (In applicazione del principio, la Corte ha riconosciuto la responsabilità del legale rappresentante di una società operante nella ristorazione, avente 18 centri di cottura e 390 impianti, pur in presenza di una delega, trattandosi di deficit strutturali e non occasionali del processo produttivo in materia di sicurezza alimentare).

 

Cassazione penale , sez. III , 03/03/2020 , n. 17174

In tema di reati ambientali, l'attribuzione della delega di funzioni non fa venir meno il dovere di controllo del delegante sul corretto espletamento delle funzioni conferite, sussistendo, tuttavia, la responsabilità di quest'ultimo solo qualora si ravvisino in concreto gli estremi della “culpa in vigilando”. (Fattispecie in cui è stata esclusa la violazione del dovere di controllo del delegante, in considerazione del fatto che al delegato erano ascritte irregolarità nelle modalità di stoccaggio dei rifiuti del tutto marginali, derivanti da modeste difformità rispetto alle prescrizioni dell'autorizzazione integrata ambientale).

 

 

Cassazione penale , sez. IV , 18/02/2020 , n. 12161

In tema di normativa antinfortunistica riguardante attività lavorativa svolta su lucernari, tetti, coperture e simili, in base alle disposizioni contenute nell' art. 148, d.lg. 9 aprile 2008, n. 81 , è configurabile, in capo al datore di lavoro, lo specifico obbligo di verifica in concreto della resistenza della superficie su cui debba insistere la lavorazione e, nel caso in cui nel corso di tale accertamento sorga un dubbio circa la capacità portante della superficie calpestabile, quello, ulteriore, di adottare le cautele atte a garantire l'incolumità dei lavoratori. (Nella specie, la Corte ha escluso che l'esito positivo di un collaudo avvenuto molti anni prima potesse far venir meno l'obbligo del datore di lavoro di verificare in concreto la resistenza della copertura). 

 

Cassazione penale , sez. IV , 13/02/2020 , n. 8163

Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell'espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l'adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore. (Nella specie, la Corte ha ritenuto immune da censure il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro per la morte di un lavoratore, ascrivibile al non corretto uso di un macchinario dovuto all'omessa adeguata formazione sui rischi del suo funzionamento).

 

Cassazione penale , sez. IV , 15/01/2020 , n. 10123

In tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve vigilare per impedire l'instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori, con la conseguenza che, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche. (Nella fattispecie, relativa al decesso di un lavoratore colpito da una macchina escavatrice perché, in violazione dell' art. 12, comma 3, d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164 , si trovava nel campo di azione di tale mezzo, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione del datore di lavoro che aveva escluso l'obbligo giuridico del datore di lavoro di impedire la presenza dei lavoratori nello scavo, secondo la prassi instauratasi in contrasto con la legge).

 

Reati informatici

 

Art. 615-ter c.p. – Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico

 

Cassazione penale sez. V, 15/07/2019, n.37339

Integra il reato di abusiva introduzione in un sistema informatico, aggravato ai sensi dell’art. 615-ter, comma 2, n. 1, c.p., per la qualità di incaricato di pubblico servizio, la condotta del conducente di automezzi e commesso, formalmente assegnato all’ufficio del registro generale della procura della repubblica, che con le proprie credenziali si introduca nel S.I.C.P. (Sistema Informativo della Cognizione Penale) dell’ufficio inquirente al fine di fornire informazioni relative a procedimenti in fase di indagini – non ostensibili a terzi.

 

Cassazione penale sez. II, 29/05/2019, n.26604

Il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico può concorrere con quello di frode informatica, diversi essendo i beni giuridici tutelati e le condotte sanzionate, in quanto il primo tutela il domicilio informatico sotto il profilo dello “ius excludendi alios“, anche in relazione alle modalità che regolano l’accesso dei soggetti eventualmente abilitati, mentre il secondo contempla l’alterazione dei dati immagazzinati nel sistema al fine della percezione di ingiusto profitto. (Fattispecie relativa a frode informatica realizzata mediante intervento “invito domino”, attuato grazie all’utilizzo delle “password” di accesso conosciute dagli imputati in virtù del loro pregresso rapporto lavorativo, su dati, informazioni e programmi contenuti nel sistema informatico della società della quale erano dipendenti, al fine di sviarne la clientela ed ottenere, così, un ingiusto profitto in danno della parte offesa). 

 

Cassazione penale sez. V, 24/04/2019, n.34803

Nell’interpretazione del requisito di c.d. illiceità speciale, espresso dall’avverbio “abusivamente” (ex art. 615-ter c.p.), le ragioni che legittimano l’accesso o il mantenimento nel sistema informatico delle notizie di reato non possono consistere nella mera pendenza di un procedimento presso l’ufficio giudiziario ove l’agente svolge servizio, ma devono essere specificamente connesse all’assolvimento delle proprie funzioni.

 

Cassazione penale sez. V, 25/03/2019, n.18284

In ipotesi di accesso abusivo ad una casella di posta elettronica protetta da password, il reato di cui art. 615-ter c.p. concorre con il delitto di violazione di corrispondenza in relazione alla acquisizione del contenuto delle mail custodite nell’archivio e con il reato di danneggiamento di dati informatici, di cui agli artt. 635-bis e ss. c.p., nel caso in cui, all’abusiva modificazione delle credenziali d’accesso, consegue l’inutilizzabilità della casella di posta da parte del titolare.

 

Cassazione penale sez. II, 14/01/2019, n.21987

Il reato di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a servizi informatici o telematici è assorbito in quello di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, del quale il primo costituisce naturalisticamente un antecedente necessario, ove il secondo risulti contestato, procedibile e integrato nel medesimo contesto spaziotemporale in cui fu perpetrato l’antefatto e in danno dello stesso soggetto. 

 

Cassazione penale sez. V, 29/11/2018, n.565

Configura il reato di cui all’art. 615-ter c.p. la condotta di un dipendente (nel caso di specie, di una banca) che abbia istigato un collega – autore materiale del reato – ad inviargli informazioni riservate relative ad alcuni clienti alle quali non aveva accesso, ed abbia successivamente girato le e-mail ricevute sul proprio indirizzo personale di posta elettronica, concorrendo in tal modo con il collega nel trattenersi abusivamente all’interno del sistema informatico della società per trasmettere dati riservati ad un soggetto non autorizzato a prenderne visione, violando in tal modo l’autorizzazione ad accedere e a permanere nel sistema informatico protetto che il datore di lavoro gli aveva attribuito.

 

Cassazione penale sez. V, 02/10/2018, n.2905

Integra il reato di cui all’art. 615 ter c.p. la condotta del marito che accede al profilo Facebook della moglie grazie al nome utente ed alla password utilizzati da quest’ultima potendo così fotografare una chat intrattenuta dalla moglie con un altro uomo e poi cambiare la password, sì da impedire alla persona offesa di accedere al social network. La circostanza che il ricorrente fosse stato a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico – quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note e a fornire, così, in passato, un’implicita autorizzazione all’accesso – non esclude comunque il carattere abusivo degli accessi sub iudice. Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi.

 

Cassazione penale sez. II, 12/09/2018, n.5748     

Il fatto che non sia stato individuato il soggetto che materialmente abbia operato l’intrusione nel sistema informatico della Poste Italiane con illecito accesso personale al conto della persona offesa, non vale ad escludere la partecipazione, a titolo di concorso ex art. 110 c.p., alla consumazione dei reati di cui agli artt. 615-ter e 640-ter c.p. di colui che sia titolare della carta Poste Pay su cui venivano illegittimamente riversate le somme prelevate dal conto della persona offesa attraverso la tecnica di illecita intromissione in via informatica.

 

Cassazione penale sez. V, 21/05/2018, n.35792

L’articolo 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, introdotto dall’articolo 1, comma 51, del decreto legislativo 6 novembre 2012 n. 190, nel testo aggiornato dall’articolo 1 della legge 30 novembre 2017 n. 179, recante disciplina della “segnalazione di illeciti da parte di dipendente pubblico” (whistleblowing), intende tutelare il soggetto, legato da un rapporto pubblicistico con l’amministrazione, che rappresenti fatti antigiuridici appresi nell’esercizio del pubblico ufficio o servizio, scongiurando, per promuovere forme più incisive di contrasto alla corruzione, conseguenze sfavorevoli, limitamento al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita, e ne riferisca al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, al superiore gerarchico ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione, all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile. La norma, peraltro, non fonda alcun obbligo di “attiva acquisizione di informazioni”, autorizzando improprie attività investigative, in violazione de limiti posti dalla legge (da queste premesse, la Corte ha escluso che potesse invocare la scriminante dell’adempimento del dovere, neppure sotto il profilo putativo, l’imputato del reato di cui all’articolo 615-ter del codice penale, che si era introdotto abusivamente nel sistema informatico dell’ufficio pubblico cui apparteneva, sostenendo che lo aveva fatto solo per l’asserita finalità di sperimentazione della vulnerabilità del sistema).

 

Cassazione penale sez. VI, 11/01/2018, n.17770

La ricezione di un Cd contenente dati illegittimamente carpiti, costituente provento del reato di cui all’articolo 615-ter del Cp, pur se finalizzata ad acquisire prove per presentare una denuncia a propria tutela, non può scriminare il reato di cui all’articolo 648 del Cp, così commesso, invocando l’esimente della legittima difesa, giusta i presupposti in forza dei quali tale esimente è ammessa dal codice penale. L’articolo 52 del Cp, infatti, configura la legittima difesa solo quando il soggetto si trovi nell’alternativa tra subire o reagire, quando l’aggredito non ha altra possibilità di sottrarsi al pericolo di un’offesa ingiusta, se non offendendo, a sua volta l’aggressore, secondo la logica del vim vi repellere licet, e quando, comunque, la reazione difensiva cada sull’aggressore e sia anche, oltre che proporzionata all’offesa, idonea a neutralizzare il pericolo attuale. Ciò che non può configurarsi nella condotta incriminata, perché la condotta di ricettazione non è comunque rivolta, in via diretta e immediata, nei confronti dell’aggressore e non è, in ogni caso, idonea a interrompere l’offesa altrui, perché la ricezione del Cd di provenienza delittuosa, pur se finalizzata alla presentazione della denuncia difensiva, non risulta strutturalmente in grado di interrompere l’offesa asseritamente minacciata o posta in essere dalla controparte, né a elidere la disponibilità da parte di questa dei dati e dei documenti asseritamente carpiti in modo illegittimo e da fare oggetto della denuncia a fini difensivi.

 

Cassazione penale, sez. un., 18/05/2017, n. 41210.

Integra il delitto previsto dall’art. 615 ter, comma 2, n. 1, c.p. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la condanna di un funzionario di cancelleria, il quale, sebbene legittimato ad accedere al Registro informatizzato delle notizie di reato – c.d. Re.Ge. – conformemente alle disposizioni organizzative della Procura della Repubblica presso cui prestava servizio, aveva preso visione dei dati relativi ad un procedimento penale per ragioni estranee allo svolgimento delle proprie funzioni, in tal modo realizzando un’ipotesi di sviamento di potere).

 

Cassazione penale, sez. II, 09/02/2017, n. 10060

Nel phishing (truffa informatica effettuata inviando una email con il logo contraffatto di un istituto di credito o di una società di commercio elettronico, in cui si invita il destinatario a fornire dati riservati quali numero di carta di credito, password di accesso al servizio di home banking, motivando tale richiesta con ragioni di ordine tecnico), accanto alla figura dell’hacker (esperto informatico) che si procura i dati, assume rilievo quella collaboratore prestaconto che mette a disposizione un conto corrente per accreditare le somme, ai fini della destinazione finale di tali somme. A tal riguardo, il comportamento di tale soggetto è punibile a titolo di riciclaggio ex art. 648 bis c.p., e non a titolo di concorso nei reati con cui si è sostanziato il phishing (art. 615 ter e 640 ter c.p.), giacché la relativa condotta interviene, successivamente, con il compimento di operazioni volte a ostacolare la provenienza delittuosa delle somme depositate sul conto corrente e successivamente utilizzate per prelievi di contanti, ricariche di carte di credito o ricariche telefoniche.

 

Cassazione penale, sez. V, 05/12/2016, n. 11994

Integra il delitto previsto dall’art. 615 ter c.p., la condotta del collaboratore di uno studio legale — cui sia affidata esclusivamente la gestione di un numero circoscritto di clienti — il quale, pur essendo in possesso delle credenziali d’accesso, si introduca o rimanga all’interno di un sistema protetto violando le condizioni e i limiti impostigli dal titolare dello studio, provvedendo a copiare e a duplicare, trasferendoli su altri supporti informatici, i files riguardanti l’intera clientela dello studio professionale e, pertanto, esulanti dalla competenza attribuitagli.

 

Cassazione penale, sez. V, 26/10/2016, n. 14546

Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 615 ter c.p., da parte colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto, violando le condizioni e i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, è necessario verificare se il soggetto, ove normalmente abilitato ad accedere nel sistema, vi si sia introdotto o mantenuto appunto rispettando o meno le prescrizioni costituenti il presupposto legittimante la sua attività, giacché il dominus può apprestare le regole che ritenga più opportune per disciplinare l’accesso e le conseguenti modalità operative, potendo rientrare tra tali regole, ad esempio, anche il divieto di mantenersi all’interno del sistema copiando un file o inviandolo a mezzo di posta elettronica, incombenza questa che non si esaurisce nella mera pressione di un tasto ma è piuttosto caratterizzata da una apprezzabile dimensione cronologica.

 

Cassazione penale, sez. V, 28/10/2015, n. 13057

Integra il reato di cui all’art. 615-ter c.p. la condotta di colui che accede abusivamente all’altrui casella di posta elettronica trattandosi di uno spazio di memoria, protetto da una password personalizzata, di un sistema informatico destinato alla memorizzazione di messaggi, o di informazioni di altra natura, nell’esclusiva disponibilità del suo titolare, identificato da un account registrato presso il provider del servizio. (In motivazione la Corte di cassazione ha precisato che anche nell’ambito del sistema informatico pubblico, la casella di posta elettronica del dipendente, purché protetta da una password personalizzata, rappresenta il suo domicilio informatico sicché è illecito l’accesso alla stessa da parte di chiunque, ivi compreso il superiore gerarchico).

 

 Cassazione penale, sez. I, 23/07/2015, n. 36338

In tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, il luogo di consumazione del delitto di cui all’art. 615-ter c.p. coincide con quello in cui si trova l’utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo per il trattamento automatico dei dati, digitando la « parola chiave » o altrimenti eseguendo la procedura di autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi e per tutelare la banca dati memorizzata all’interno del sistema centrale ovvero vi si mantiene eccedendo i limiti dell’autorizzazione ricevuta.

 

Cassazione penale, sez. V, 11/03/2015, n. 32666

Integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall’art. 615 ter, c.p. la condotta di accesso o mantenimento nel sistema posta in essere da un soggetto, che pur essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitare oggettivamente l’accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso nel sistema.

 

Cassazione penale, sez. V, 18/12/2014, n. 10121

In tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, la circostanza aggravante prevista dall’art. 615 ter, comma 3, c.p., per essere il sistema violato di interesse pubblico, è configurabile anche quando lo stesso appartiene ad un soggetto privato cui è riconosciuta la qualità di concessionario di pubblico servizio, seppur limitatamente all’attività di rilievo pubblicistico che il soggetto svolge, quale organo indiretto della p.a., per il soddisfacimento di bisogni generali della collettività, e non anche per l’attività imprenditoriale esercitata, per la quale, invece, il concessionario resta un soggetto privato. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza cautelare che aveva ritenuto sussistente la circostanza aggravante in questione in relazione alla condotta di introduzione nella “rete” del sistema bancomat di un istituto di credito privato).

 

Cassazione penale, sez. V, 31/10/2014, n. 10083.

Nel caso in cui l’agente sia in possesso delle credenziali per accedere al sistema informatico, occorre verificare se la condotta sia agita in violazione delle condizioni e dei limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare dello jus excludendi per delimitare oggettivamente l’accesso, essendo irrilevanti, per la configurabilità del reato di cui all’art. 615 ter c.p., gli scopi e le finalità soggettivamente perseguiti dall’agente così come l’impiego successivo dei dati eventualmente ottenuti.

 

Art. 640 ter c.p. – Frode informatica

 

Cassazione penale sez. II, 30/10/2019, n.50395   

La condotta di chi, ottenuti senza realizzare frodi informatiche i dati relativi a una carta di debito o di credito, unitamente alla stessa tessera elettronica, poi la usi indebitamente senza essere titolare (nella specie, l’imputato si era impossessato dal bancomat e del correlativo Pin della persona offesa senza penetrare in sistemi informatici ovvero clonare la carta elettronica, bensì attraverso una condotta di furto, che non gli era stata imputata per difetto di querela) rientra nell’ipotesi di reato di cui all’art. 55, comma 9, d.lg. 21 novembre 2007 n. 231 (ora, art. 493-bis c.p.) e non in quella di cui all’articolo 640-ter del codice penale, che presuppone l’alterazione del funzionamento di un sistema informatico o telematico, ovvero l’intervento senza diritto con qualsiasi modalità sui dati o sui programmi contenuti in un sistema informatico o telematico.

 

Cassazione penale sez. II, 17/06/2019, n.30480

E’ configurabile il reato di cui all’art. 640 ter c.p., se la condotta contestata è sussumibile nell’ipotesi “dell’intervento senza diritto su informazioni contenute in un sistema informatico”. Integra il delitto di frode informatica, e non quello di indebita utilizzazione di carte di credito, la condotta di colui che, servendosi di una carta di credito falsificata e di un codice di accesso fraudolentemente captato in precedenza, penetri abusivamente nel sistema informatico bancario ed effettui illecite operazioni di trasferimento fondi. Integra il reato di indebita utilizzazione di carte di credito di cui all’art. 493 ter c.p. e non quello di frode informatica, il reiterato prelievo di denaro contante presso lo sportello bancomat di un istituto bancario mediante utilizzazione di un supporto magnetico clonato.

 

Cassazione penale sez. II, 17/06/2019, n.30480

L’elemento caratterizzante della frode informatica consiste nell’utilizzo “fraudolento” del sistema informatico, il quale costituisce presupposto “assorbente” rispetto all’indebita utilizzazione dei codici di accesso ex art. 55, comma 9, d.lg. n. 231/2007. Il reato di frode informatica, dunque, si differenzia dall’indebita utilizzazione di carte di credito poiché il soggetto pone in essere una condotta in cui, servendosi di una carta di credito falsificata e di un codice di accesso captato precedentemente con modalità fraudolenta, penetra abusivamente nel sistema informatico bancario, effettuando operazioni di trasferimento di fondi illecite (nella specie, dalla descrizione dei fatti risultava che i ricorrenti, attraverso l’utilizzazione dei codici di accesso delle carte di credito intestate alla persona offesa, avessero effettuato dei prelievi, dunque l’utilizzo non era finalizzato ad intervenire in modo fraudolento sui dati del sistema informatico, ma solo a prelevare del denaro contante).

 

Cassazione penale sez. II, 29/05/2019, n.26604

Il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico può concorrere con quello di frode informatica, diversi essendo i beni giuridici tutelati e le condotte sanzionate, in quanto il primo tutela il domicilio informatico sotto il profilo dello “ius excludendi alios”, anche in relazione alle modalità che regolano l’accesso dei soggetti eventualmente abilitati, mentre il secondo contempla l’alterazione dei dati immagazzinati nel sistema al fine della percezione di ingiusto profitto. (Fattispecie relativa a frode informatica realizzata mediante intervento “invito domino”, attuato grazie all’utilizzo delle “password” di accesso conosciute dagli imputati in virtù del loro pregresso rapporto lavorativo, su dati, informazioni e programmi contenuti nel sistema informatico della società della quale erano dipendenti, al fine di sviarne la clientela ed ottenere, così, un ingiusto profitto in danno della parte offesa).

 

Cassazione penale sez. II, 05/04/2019, n.17318

In tema di frode informatica, l’installatore di “slot machine” che provveda all’inserimento di schede informatiche dallo stesso predisposte, e tali da alterare il sistema informatico così da eludere il pagamento delle imposte previste con conseguente ingiusto profitto, assume la qualifica di operatore di sistema, rilevante ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 640-ter,  comma 2, c.p.

 Cassazione penale sez. II, 12/09/2018, n.5748

Il fatto che non sia stato individuato il soggetto che materialmente abbia operato l’intrusione nel sistema informatico della Poste Italiane con illecito accesso personale al conto della persona offesa, non vale ad escludere la partecipazione, a titolo di concorso ex art. 110 c.p., alla consumazione dei reati di cui agli artt. 615-ter e 640-ter c.p. di colui che sia titolare della carta Poste Pay su cui venivano illegittimamente riversate le somme prelevate dal conto della persona offesa attraverso la tecnica di illecita intromissione in via informatica.

 

Cassazione penale , sez. II , 10/09/2018 , n. 48553

A differenza del reato di truffa, nel caso della frode informatica l’attività fraudolenta dell’agente investe non il soggetto passivo, di cui manca l’induzione in errore, ma il sistema informatico di pertinenza della stessa persona offesa che viene manipolato al fine di ottenere una penetrazione abusiva (nella specie, la Corte, considerando che il ricorrente aveva messo a disposizione la propria postepay ad altri soggetti rimasti ignoti che avevano poi materialmente realizzato l’accesso abusivo ai conti correnti, ha confermato la sussistenza del reato in termini concorsuali).

 

Cassazione penale sez. V, 06/04/2018 n. 24634

Integra il reato di frode informatica, previsto dall’ art. 640-ter cod. pen. , – e non quello di peculato – la modifica di apparecchi elettronici di gioco idonea ad impedire il collegamento con la rete dell’Agenzia monopoli di Stato ed il controllo sul flusso effettivo delle giocate e delle vincite totalizzate, di modo che il titolare della concessione si appropri delle somme spettanti allo Stato a titolo di imposta. (Nel caso di specie vi era stata l’alterazione del funzionamento di un sistema informatico, finalizzata a procurarsi fraudolentemente la “percentuale” di danaro, pari al 13,5%, corrispondente al tributo da versarsi allo Stato per ciascuna giocata).

 

Cassazione penale sez. VI  01/03/2018 n. 21739  

L’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di frode informatica aggravata ai danni dello Stato va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o d’altra cosa mobile altrui, oggetto di appropriazione: in particolare, è configurabile il peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri delle predette “res” avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragioni dell’ufficio o servizio; è configurabile la frode informatica quando il soggetto attivo si procuri il possesso delle predette “res” fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto corretta la qualificazione come peculato della condotta del ricorrente, incaricato del servizio di biglietteria in virtù di una convenzione con la società di gestione del trasporto pubblico, il quale, approfittando di un errore del sistema informatico, stampava una seconda copia del biglietto di viaggio emesso regolarmente e la rivendeva ad altro passeggero, incassando e trattenendo per sé il corrispettivo di competenza della pubblica amministrazione).

 

Cassazione penale sez. II  14/02/2017 n. 8913  

Sussiste un contrasto giurisprudenziale in relazione alla qualificazione giuridica dell’utilizzo indebito di supporti magnetici clonati. Per alcuni tali condotte integrano l’illecito di cui all’art. 55 d.lg. n. 231 del 2007 (indebito utilizzo di carte di pagamento clonate), per altri quello di cui all’art. 640 -ter c.p. (frode informatica).

 

Cassazione penale sez. II  02/02/2017 n. 9191  

La frode informatica si caratterizza rispetto alla truffa per la specificazione delle condotte fraudolente da tenere che investono non un determinato soggetto passivo, bensì il sistema informatico, attraverso la manipolazione. Si tratta di un reato a forma libera finalizzato sempre all’ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno ma che si concretizza in una condotta illecita intrusiva o alterativa del sistema informatico o telematico.

 

Cassazione penale sez. II  01/12/2016 n. 54715  

Integra il reato di frode informatica, previsto dall’art. 640 -ter c.p., l’introduzione, in apparecchi elettronici per il gioco di intrattenimento senza vincite, di una seconda scheda, attivabile a distanza, che li abilita all’esercizio del gioco d’azzardo (cosiddette “slot machine”), trattandosi della attivazione di un diverso programma con alterazione del funzionamento di un sistema informatico.

 

Cassazione penale sez. II  09/06/2016 n. 41435  

Il reato di frode informatica si differenzia dal reato di truffa perché l’attività fraudolenta dell’agente investe non la persona (soggetto passivo), di cui difetta l’induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto sussistente la penale responsabilità dell’imputato in ordine ad una fattispecie di truffa, originariamente qualificata in termini di frode informatica, avvenuta mettendo in vendita tramite la piattaforma web eBay materiale di cui l’imputato non aveva l’effettiva disponibilità, ed utilizzando per le comunicazioni un account e-mail per la cui acquisizione l’imputato aveva sfruttato generalità di fantasia e per i pagamenti una carta prepagata che riportava le sue effettive generalità).

 

Art. 493 ter c.p. – Indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento

 

Cassazione penale sez. II, n. 45568 del 2021

… il tribunale ha argomentato -in forma certamente non apparente- in ordine alla indicazione della sussistenza di un profitto certo nella condotta tenuta dall’avvocato (OMISSIS), che attraverso lo strumento artificioso delle carte di debito (formalmente) altrui intestate, ma direttamente possedute ed utilizzate, è riuscito a lucrare la differenza tra quanto accreditato dalle compagnie di assicurazione a titolo di risarcimento in favore dei danneggiati e quanto effettivamente a costoro corrisposto, al netto -naturalmente- delle sue competenze professionali e di quanto dovuto ai consulenti medici. Tale profitto, secondo una nozione non controversa, consiste nel vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito (Sez. U., n. 29951, del 24/5/2004, Rv. 228166; Sez. 5, n. 16008, del 12/2/2005, Rv. 263702; Sez. 2, n. 53650, del 5/10/2016, Rv. 268854). Inoltre, il punto devoluto relativamente alla dedotta “confusione” tra i concetti giuridici di prodotto e di profitto non risulta previamente sottoposto al tribunale del riesame, il che ne preclude l’analisi nella sede di legittimità per la evidente interruzione della catena devolutiva (Sez. 5, n. 48416 del 6/10/2014, Rv. 261029-01). Ciò che, viceversa, certamente è apparente nell’argomentare del tribunale è la indicazione del quantum di profitto concretamente conseguito dall’avvocato (OMISSIS), che lo stesso tribunale, riconosciuta la equivocità dei dati rappresentati dagli atti di indagine compendiati nel decreto di sequestro preventivo, vorrebbe rimesso al giudizio di merito, pur mantenendo il sequestro a fini di confisca della somma indicata nel dispositivo del decreto impugnato.

Non è dubbio, infatti, che il profitto confiscabile, in via diretta o, in mancanza, per equivalente valore giacente sui conti correnti dell’indagato, va apprezzato al netto del vantaggio comunque reso o conseguito dalla persona offesa (Sez. 2, n. 8339, del 12/11/2013, Rv, 258787); come pure va nella fattispecie detratto il corrispettivo dovuto ai consulenti medici per l’opera professionale prestata.

Il calcolo della detta somma, in quanto elemento essenziale del provvedimento che sottrae alla disponibilità dell’indagato le somme in suo (presunto) legittimo possesso, va correttamente eseguito nella sede propria cautelare, dovendo altrimenti ritenersi che le somme siano state sequestrate senza titolo legittimo”.

 

Cassazione penale sez. II, 18/09/2019, n.46652

Risponde dei reati di ricettazione e di indebito utilizzo di carte di credito di cui all’art. 493-ter, comma 1, prima parte, c.p. il soggetto che, non essendo concorso nella realizzazione della falsificazione, riceve da altri carte di credito o di pagamento contraffatte e faccia uso di tale mezzo di pagamento. (In motivazione la Corte ha precisato che l’autore della contraffazione, quando proceda anche all’utilizzo indebito del mezzo di pagamento, risponderà in concorso delle due autonome ipotesi di reato previste dall’art. 493-ter, comma 1, c.p.).

 

Cassazione penale sez. II, 25/06/2019, n.38837

Costituisce indebita utilizzazione di carta di credito, attualmente sanzionato dall’art. 493-ter c.p., l’effettuazione attraverso la rete internet di transazioni, previa immissione dei dati ricognitivi e operativi di una valida carta di credito altrui, acquisiti dall’agente fraudolentemente con il sistema telematico, a nulla rilevando che il documento non sia stato nel suo materiale possesso. Infatti, l’espressione di ‘indebito utilizzo’, che definisce il comportamento illecito sanzionato, individua la lesione del diritto incorporato nel documento, prescindendo dal possesso materiale della carta che lo veicola e si realizza con l’uso non autorizzato dei codici personali.

 

Cassazione penale sez. II, 22/02/2019, n.17453

Anche l’uso di una carta di credito da parte di un terzo, autorizzato dal titolare, integra il reato di cui all’art. 12, d.l. 3 maggio 1991, n. 143, convertito nella l. 5 luglio 1991, n. 197 (ora art. 493-ter c.p.), in quanto la legittimazione all’impiego del documento è contrattualmente conferita dall’istituto emittente al solo intestatario, il cui consenso all’eventuale utilizzazione da parte di un terzo è del tutto irrilevante, stanti la necessità di firma all’atto dell’uso, di una dichiarazione di riconoscimento del debito e la conseguente illiceità di un’autorizzazione a sottoscriverla con la falsa firma del titolare, ad eccezione dei casi in cui il soggetto legittimato si serva del terzo come “longa manus” o mero strumento esecutivo di un’operazione non comportante la sottoscrizione di alcun atto. (Fattispecie in cui l’agente, che conosceva gli estremi della carta di credito della persona offesa in ragione di un precedente utilizzo per conto di quest’ultima, acquistava un biglietto aereo destinato esclusivamente a sé stesso).

 

Cassazione penale sez. V, 11/12/2018, n.5692 

L’indebita utilizzazione ai fini di profitto, di una carta di credito da parte di chi non ne sia titolare, integra il delitto di cui all’art. 55, comma 9, d.lg. 21 novembre 2007, n. 231 (ora art. 493-ter c.p.), indipendentemente dall’effettivo conseguimento di un profitto o dal verificarsi di un danno, non essendo richiesto dalla norma che la transazione giunga a buon fine. (Fattispecie nella quale l’imputato aveva introdotto la carta di credito di provenienza illecita nello sportello bancomat, senza digitare il PIN di cui non era a conoscenza).